Rwanda, alcune ferite sono ancora aperte

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Vent’anni fa, nel silenzio colpevole del mondo, si consumava il genocidio del Rwanda. Fra il 6 aprile e il 19 luglio 1994 furono massacrate dalle 800 mila al milione di persone, per la maggior parte di etnia tutsi, colpevoli di essere in una posizione sociale preminente rispetto alla maggioranza hutu. E a questo numero va aggiunto quello spaventoso delle 250 mila donne stuprate, in un territorio grande come il Piemonte.

Come fu possibile un genocidio di quelle dimensioni, che si consumò in un arco di tempo così breve? Con Primo Levi, che soprattutto nell’ultima parte della sua vita mise in guardia dalla sottovalutazione del potenziale genocidario del Novecento, va subito detto che un genocidio non rappresenta mai una casualità o un elemento collaterale in un conflitto. Come ha recentemente affermato la scrittrice rwandese Scholastique Mukasonga, che ha perso trenta membri della sua famiglia in quei terribili cento giorni di sangue, “i genocidi non sono mai un ‘incidente’. Si preparano per lungo tempo. Non sono un momento di follia o di smarrimento, ma il frutto di una manipolazione. Tutti, in Rwanda, vittime e carnefici, siamo stati manipolati per oltre trent’anni”. E se vogliamo le origini vanno ricercate ancora più lontano, nelle dissennate politiche di spartizione coloniale dell’Africa di inizio secolo e nell’introduzione delle carte di identità etniche che vennero imposte dall’amministrazione belga nel 1933, l’anno in cui Hitler andava al potere in Europa.

Le responsabilità di quella criminale divisione fra hutu e tutsi che sta alla base dei massacri del 1994 affonda dunque le radici proprio nella politica coloniale europea, che introdusse una vera e propria antropologia razzista, riconoscendo ai tutsi origini più vicine alla razza caucasica e legittimandone in questo modo la superiorità biologica e il ruolo dominante sul piano sociale. Fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta la forte opposizione hutu condusse a un primo sterminio di oltre 100.000 tutsi e alla fuga di gran parte della popolazione tutsi in Uganda. Fino al 1973, anno in cui prese il potere l’hutu Yuvenal Habyarimana, il Rwanda visse anni difficilissimi: il susseguirsi di colpi di stato coinvolse anche i Paesi confinanti, nei quali si riversavano di volta in volta gli oppositori per riorganizzare la resistenza e riprendere il potere.

All’inizio degli anni Novanta la situazione, già difficilissima, cominciò a precipitare. Il Fronte Patriottico Rwandese, formazione politico-militare nata nella comunità tutsi fuggita in Uganda, tentò di rilegittimarsi politicamente e di rientrare in Rwanda, prima per via diplomatica e poi attraverso la lotta armata, iniziata nell’ottobre del 1990. Gli anni dal 1990 al 1994 furono terribili non solo per il crescente livello dello scontro, ma soprattutto per la campagna di odio verso i tutsi che prese piede nella comunità hutu rwandese. Nella notte fra il 6 e il 7 aprile 1994 il presidente hutu del Rwanda Juvenal Habyarimana perdeva la vita nell’esplosione dell’aereo sul quale stava rientrando nell’aeroporto della capitale, Kigali, dopo un incontro in Tanzania per le trattative di pace. Con lui morì anche il presidente burundese, Cyprien Ntaryamira. Fu l’atto di inizio del genocidio rwandese: il principale movimento hutu, “Potere Hutu”, accusava il leader politico tutsi Paul Kagame di essere il mandante dell’attentato; contemporaneamente i leader del Fronte Patriottico Rwandese accusavano gli hutu di Potere Hutu di aver lanciato il missile terra aria che aveva disintegrato l’aereo presidenziale, a causa delle aperture di Habyarimana alla minoranza tutsi. Di fatto la morte di Habyarimana, chiunque ne sia stato l’autore, aprì la strada al massacro sistematico dei tutsi e degli hutu moderati da parte delle milizie hutu. Un massacro reso possibile dalla grande quantità di armi accantonate nei mesi precedenti e realizzato dopo aver allontanato il personale occidentale e i giornalisti di tutto il mondo: i carnefici contarono sulla lentezza nella risposta delle Nazioni Unite che non compresero la richiesta di aiuto del generale dei caschi blu Romeo Dallaire, lasciandolo con un manipolo di uomini a contrastare la furia delle truppe hutu.

Daniele Scaglione, già presidente di Amnesty International, in un’intervista a radio Vaticana rilasciata il 9 gennaio scorso spiegava: “Quando pensiamo al genocidio del ‘94, forse facciamo fatica a immaginare cosa sia stato. Non è stato solo la morte di tantissime persone e di molte altre ferite: è stato un Paese raso al suolo”. E continuava: “…colpisce soprattutto il fatto che questa violenza non sia stata spontanea, perché c’è stata veramente un’organizzazione precisa, meticolosa, dalla propaganda dei giornali alla distribuzione di armi, all’addestramento. Una cosa su cui non dobbiamo farci ingannare è l’idea che questa violenza sia stata perpetrata con armi tradizionali, tipo machete. Certo, c’è stato anche il machete, ma non è il simbolo di quel genocidio. Il simbolo è rappresentato dagli enormi carichi di armi che hanno reso il Rwanda, grande come la Lombardia, il terzo Paese importatore, in termini assoluti, di armi in Africa. E qualcuno ha venduto queste armi, qualcuno ha prestato i soldi perché il Rwanda potesse diventare un arsenale spaventosamente pronto al massacro. E questo qualcuno siamo ‘noi’ Paesi occidentali fondamentalmente, non altri”. Il genocidio, insomma, non è senza responsabilità occidentali, e l’attribuzione di quelle morti unicamente ai grandi quantitativi di machete importati dalla Cina può tragicamente avere una funzione autoassolutoria, utile solo a scaricare la coscienza delle democrazie occidentali.

Ma cosa resta, oggi, a vent’anni di distanza da quel genocidio?

Prima di tutto va detto che il Rwanda, dopo l’esperienza di quella tragedia, sembra essere riuscito velocemente a uscirne. Il Rwanda di oggi ha realizzato gli obiettivi del millennio più di molti altri Paesi africani e si presenta sulla scena internazionale come un Paese che vuole dare un’immagine di sicurezza nel panorama centroafricano. Inoltre, è indubbio che il Paese dopo il 94 ha dovuto risolvere i problemi enormi della giustizia, della pena per le migliaia di carcerati responsabili dei massacri, della verità su quanto accaduto. E vi ha fatto fronte con coraggio, guardando in faccia i carnefici e chiedendo alle vittime di farsi carico di un colossale processo di riconciliazione nazionale. In un Paese nel quale il saluto più comune al mattino, nei giorni del genocidio, era “sei sopravvissuto alla notte?”, e nel quale il sangue era davvero scorso a fiumi, in un Paese così segnato dalla violenza, il tema della riconciliazione nazionale ha assunto così dimensioni inimmaginabili: “il perdono, spiegava ancora Scaglione, è stato l’elemento portante dei tribunali tradizionali, i cosiddetti gachacha, che in lingua originale vuole sostanzialmente dire ‘prato’: un posto dove i rwandesi a milioni sono andati a fare i processi a livello popolare. Alla vittima veniva chiesto di perdonare i responsabili delle violenze e ciò è stato molto difficile per i sopravvissuti. Parlando con molti rwandese ho capito però che questi processi, che alcuni chiamano ‘seduta psicanalitica di massa’, sono stati indispensabili per dirsi: ‘ricostruiamo tutto quello che è successo e poi proviamo ad andare avanti’”. In qualche modo i gachacha sono stati il luogo nel quale si è deciso veramente del futuro perché ci si trovava di fronte a un’alternativa terribile: o continuare a sprofondare nell’abisso della sofferenza subita, o avere il coraggio, a volte disperato, di reimmaginare il futuro.

Ma questa incredibile volontà di futuro non può cancellare le cicatrici di un passato nel quale in troppi hanno ceduto alla follia di uccidere i vicini, i conoscenti, gli amici. Quel passato è troppo vicino per essere chiuso e continua a pesare anche sul grande sforzo di riconciliazione che ha animato i tribunali popolari. Così assume un significato di enorme rilievo il processo a Pascal Simbikambwa, apertosi a Parigi il 4 febbraio scorso, nel quale l’ufficiale hutu viene accusato di aver sostenuto e organizzato numerosi massacri e contro il quale, in questo primo processo francese sulla vicenda del Rwanda, saranno ascoltati non meno di cinquanta testimoni. Allo stesso modo ci riporta a un passato ancora da rielaborare l’assassinio, avvenuto il primo gennaio di quest’anno, di Patrick Karegeya, ex capo dei servizi segreti del Rwanda e oggi oppositore del presidente Kagame. Karegeya è stato ucciso in una stanza d’albergo a Johannesburg, in Sudafrica, e dopo la sua morte il presidente rwandese ha fatto alcune sconcertanti dichiarazioni sui “traditori” che hanno impensierito la comunità internazionale e gli stessi Stati Uniti, che vedono con preoccupazione l’avvicinamento del regime di Kigali al movimento di ribellione congolese M23. L’omicidio di Karegeya, come quello di altri oppositori all’estero caduti in disgrazia dopo aver preso le distanza dal potere di Kagame, getta non poche ombre sulla politica interna e su quella estera dell’attuale amministrazione del Rwanda e solleva inquietanti interrogativi sugli equilibri fragili della regione dei grandi laghi. Insomma, al di là degli sforzi di riconciliazione, in tutta l’area rimangono ancora aperte molte ferite del genocidio sul piano politico, e rimangono soprattutto zone d’ombra che potranno essere chiarite solo attraverso uno sforzo che va ben oltre i confini rwandesi.

Un’ultima questione riguarda il silenzio di fronte ai massacri. Quel silenzio fu spezzato, è bene ricordarlo, dal grido di Giovanni Paolo II, che nell’aprile 1994 per primo usò la parola ‘genocidio’. Ma nonostante quel grido, quasi disperato, il genocidio si consumò come uno spettacolo terribile davanti a spettatori muti. Restò troppo a lungo in silenzio l’opinione pubblica europea: perché? Perché quella sofferenza era troppo lontana? Perché colpiva persone considerate più “primitive” e quindi più “violente” di noi? Perché dunque in fondo rimangono tracce di razzismo anche nella democraticissima Europa? Perché l’Africa alla fine è lontana? Perché di fronte a conflitti considerati etnici ci si sente impotenti? Quale che sia la ragione, dobbiamo riconoscere che gran parte dell’Occidente non ha colto la portata di quanto avveniva ed è rimasto sulla soglia. Ma restò a guardare, altrettanto muta, anche una parte della popolazione rwandese, e dei Paesi confinanti, talvolta per paura, talvolta appoggiando silenziosamente i carnefici e abbandonando così al loro destino le vittime.

Contro questo silenzio, che a me sembra davvero il problema più grande che il genocidio rwandese ci lascia in eredità, restano i grandi atti di eroismo dei tanti che salvarono la vita ad altri rischiando personalmente, che si esposero, che sfidarono la furia dei carnefici tenendo davanti agli occhi il monito universale che “chi salva una vita salva il mondo intero”. Forse, ancora una volta, dovremmo ripartire da questi giusti per curare le ferite. Perché sono loro a indicare la strada sulla quale camminare, in mezzo alla violenza, per non perdere la nostra umanità.

Alberto Conci

Fonte: Cooperazione fra consumatori

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