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Storia
I territori dell'attuale Afghanistan non costituirono un'omogenea unità politica che a partire dal sec. XVIII, anche a causa della posizione geografica, di transito fra mondo iranico e indiano. Sin dal III millennio a. C. infatti furono teatro di complessi incontri fra popolazioni diverse, finché, conquistati da Ciro e da Dario (sec. VI a. C.), passarono poi in parte sotto Alessandro Magno (329 a. C.) ed entrarono nella sfera della civiltà ellenistica. Dopo un periodo di sottomissione all'impero indiano dei Maurya (320-232 a. C.), intorno al 250 la dinastia indogreca di Battriana vi costituì un regno indipendente. Verso il sec. I d. C., Parti e Saka si divisero i territori e nel 90 tutto l'Afghanistan fu conquistato dai Kuṣāṇa, creatori di un vasto impero che durò sino all'invasione degli Unni Bianchi (ca. 500), spodestati più tardi da un'invasione iranica, che diede origine a vari principati autonomi (sec. VI). Nei due secoli successivi, l'invasione araba, con la progressiva islamizzazione del territorio, fece rientrare la storia dell'Afghanistan nella più ampia storia persiana e quindi in quella dell'impero arabo e poi musulmano. Alla dinastia dei Gasnavidi (sec. X-XII) e a quella dei Khwārizm Shāh (sec. XII), seguì, nel sec. XIII, l'invasione di Gengis Khān, che determinò la formazione di vari principati mongoli. Sotto la dinastia dei Timuridi (sec. XV), l'Afghanistan ebbe grande prosperità, ma nel sec. XVI Bâbur (capostipite dei Moghūl indiani) ne fece la base per la conquista dell'India.
Per quasi due secoli l'Afghanistan perdette l'indipendenza, diviso fra i Moghūl e i Safawidi, mentre già nei sec. XVI e XVII si delineavano le prime influenze delle potenze occidentali; l'Afghanistan andava assumendo la funzione di Stato cuscinetto, alla quale va attribuita la sua stessa esistenza come Stato, pur non sottovalutando il peso di tendenze nazionalistiche.
L'Afghanistan, indipendente dal 1747 (quando fu eletto re il generale Aḥmad), cercò di attuare verso l'India una politica di espansione, frenata, verso la fine del secolo, da aspre lotte dinastiche, complicate da interventi inglesi e russi. Furono questi ultimi a scatenare l'invasione persiana che ebbe come immediata conseguenza l'intervento inglese (prima guerra anglo-afghana, 1838-42). A un periodo di neutralismo dell'Afghanistan seguirono un trattato di rispetto territoriale anglo-afghano (1854) e un secondo intervento inglese in favore dell'Afghanistan contro la Persia, mentre nuove tensioni tra Russia e Inghilterra provocarono la seconda guerra anglo-afghana (1878-79), conclusa con un trattato (1880) che sanciva la preminenza inglese.
Neutrale nella prima guerra mondiale, l'Afghanistan ritentò, nel 1919, l'invasione di territori indiani, scatenando la terza guerra anglo-afghana, conclusa (Trattato di Rawalpindi, 1919) con il riconoscimento dell'indipendenza afghana. L'Afghanistan avviava allora un'autonoma politica estera (accordi con URSS, Turchia e Iran), mentre accoglieva una più accentuata penetrazione sovietica.
Nel 1931 fu emanata la prima Costituzione e nel 1933 il re Muḥammad Ẓāhīr stipulò l'Intesa orientale (con Iran, Iraq e Turchia), primo nucleo del moderno panislamismo. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale al vecchio antagonismo anglo-russo si sostituiva quello statunitense-sovietico (l'Afghanistan fungeva ancora da cuscinetto). Ammesso all'ONU nel 1946, l'Afghanistan incominciava a ricevere aiuti economici dagli USA e militari-economici dall'URSS, conservando però un rigoroso neutralismo. La questione dei confini si riaccendeva con la formazione del Pakistan che inglobava il Pashtunistan abitato da genti affini agli Afghani; ciò dava pretesto a rivendicazioni territoriali dell'Afghanistan (1953), sfociate nel 1961 in incidenti armati. Nel 1963 la situazione migliorava e le questioni di confine pendenti venivano regolate anche con l'URSS e la Cina. Nel 1964 era approvata una Costituzione più aperta a esigenze liberali.
Pur essendo essenzialmente musulmano, l'Afghanistan si avvicinava all'India, anche per reazione alle mai sopite questioni di confine con il Pakistan. Nel luglio 1973 il re Muḥammad Ẓāhīr veniva deposto da un colpo di stato di nobili progressisti capeggiati da Muḥammad Dā'ud, cugino dello stesso re: era proclamata la Repubblica e, nel 1977, varata una nuova Costituzione. La rapida involuzione moderata del nuovo regime politico conduceva però nell'aprile 1978 a un nuovo colpo di stato, che portava al potere il Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA), di ispirazione marxista, capeggiato da Muḥammad Taraki Nur, leader della fazione Khalq, il quale rafforzava i legami dell'Afghanistan con l'URSS. Nel settembre 1979 Taraki veniva ucciso e sostituito alla direzione politica del Paese da Hafizullah Amin, ex uomo forte del precedente governo. Incapace di controllare la situazione, Amin veniva ucciso nel dicembre 1979 in seguito a un intervento militare sovietico che consentiva la presa del potere da parte di Babrak Karmal, fondatore della fazione comunista Parcham.
La presenza delle truppe straniere faceva presto crescere l'opposizione al regime, sfociata in attività di guerriglia condotte da gruppi islamici ispirantisi all'esperienza della rivoluzione iraniana: sfruttando la conoscenza degli impervi territori montani, i mujaeddin tenevano costantemente in scacco l'Armata Rossa e l'esercito regolare afghano arroccati nei centri urbani di pianura. Solo dopo le dimissioni di Karmal, sostituito nel settembre 1987 dal generale Najibullah, sembrava avviarsi il processo di pacificazione nazionale, favorito dal nuovo corso della politica estera sovietica: tra il 1986 e il 1987, contemporaneamente ad accenni di disimpegno da parte dell'URSS, il governo proponeva iniziative di dialogo, culminate durante l'anno seguente in negoziati e intese tra le parti, siglati a livello internazionale.
All'inizio del 1989 veniva completato il ritiro dell'Armata Rossa, ma al disimpegno sovietico non si accompagnavano credibili iniziative internazionali in grado di favorire una soluzione politica del conflitto. A peggiorare il quadro si aggiungeva la particolarità di una resistenza armata fortemente frazionata in cui operavano almeno una quindicina di gruppi divisi tra di loro anche sul piano religioso (otto fazioni facevano riferimento al rito musulmano sciita e sette a quello sunnita) e nella quale si trovavano a convivere un'anima moderata e una fondamentalista: la prima si esprimeva nella figura di Sibghatullah Mjaddidi, leader dei moderati, mentre la seconda era rappresentata da Rasul Sayaf. Il 15 aprile 1992 Najibullah era costretto a dimettersi e dopo un tentativo fallito di espatriare dovette rifugiarsi in un ufficio dell'ONU; i mujaeddin davano quindi vita, nello stesso anno, a un governo di transizione che doveva fronteggiare lotte intestine e problemi connessi al rientro di oltre cinque milioni di profughi. I contrasti si sviluppavano in particolar modo tra le formazioni moderate e la componente più fondamentalista Hezb i Islami guidata da Gulbuddin Hekmatyar.
A Kābul, comunque, il potere veniva assunto da un Consiglio supremo di 10 membri che provvedeva a eleggere un capo provvisorio dello Stato nella persona del moderato Burhannudin Rabbani, e un primo ministro in quella di Abdul Sabul Fareed del partito fondamentalista Hezb i Islami. Ma proprio il capo di questa fazione, Gulbuddin Hekmatyar, si mostrava il più insofferente verso tale soluzione e Kābul diveniva nuovamente un teatro di guerra tra fazioni. In questa complessa situazione si affacciavano sulla scena politica nazionale (1994) i Taliban, un nuovo movimento di etnia pashtō e di ispirazione islamica radicale, nato nelle scuole coraniche al confine con il Pakistan. Studenti di teologia coranica, i Taliban, influenzati probabilmente dal Pakistan, scendevano in campo agitando la bandiera della legge coranica (shari‘ah) come strumento di pacificazione, ma di fatto divenivano un terzo polo della guerra civile in grado di mettere in seria difficoltà le altre fazioni in lotta. Inizialmente formazione di studenti-guerriglieri con una forte caratterizzazione fondamentalista, in seguito, sotto la guida di Moḥammad Omar, un ex mujaeddin deluso dalle lotte di fazione ai vertici del Paese, oltre agli studenti il movimento iniziò ad arruolare ex soldati dell'esercito afghano e mujaeddin che avevano disertato dopo la vittoria su Mosca. Grazie a una serie di successi militari, che costringevano lo stesso Hekmatyar a stringere un nuovo accordo con Rabbani, i Taliban riuscivano a conquistare la capitale Kābul condannando subito a morte l'ex presidente Najibullah e alcuni collaboratori, imponendo una rigida applicazione della legge coranica, in particolare nei confronti delle donne. Il nuovo consiglio provvisorio, che risultava composto da sei mullāh, venne immediatamente riconosciuto dal governo del Pakistan, mentre il presidente deposto Rabbani, insieme al comandante dell'esercito e al primo ministro Hekmatyar, dopo aver lasciato Kābul, fuggiva verso il Nord del Paese. Questo però non metteva fine alla guerra civile afghana, alimentata non solo da divisioni religiose, ma soprattutto dall'opposizione delle etnie non pashto, maggioritarie nel Nord del Paese: usbechi, azeri e tagichi.
Nel maggio 1997, i Taliban sferravano un'ampia offensiva su più fronti ed entravano vittoriosi a Mazār-e Sharīf (la capitale nel Nord del Paese) da dove venivano poi ricacciati dagli sciiti filoiraniani dello Hezb i Wahat e dalle milizie uzbeke. Questa sconfitta, la più dura in tre anni di inesorabile avanzata, non riusciva a frenare la marcia dei Taliban che, dopo aver proclamato nel 1997 l'Emirato islamico, conquistavano di nuovo la principale roccaforte dell'opposizione, Mazār-e Sharīf (1998). Malgrado queste vittorie e il sostegno del Pakistan (interessato non solo a incoraggiare il fondamentalismo musulmano, ma anche ad assicurarsi un corridoio verso l'Asia centrale, per importare gas dal Turkmenistan, e un retroterra strategico nei confronti dell'India), i Taliban si trovavano isolati sul piano internazionale a causa dei loro collegamenti con il terrorismo islamico, in particolare con l'esule saudita Osama Bin Laden, rifugiatosi in Afghanistan nel 1996 e accusato dagli Stati Uniti di essere il mandante degli attentati contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania (1998). Sottoposto a forte pressione diplomatico-militare sia dagli USA sia dall'Iran (sostenitore degli sciiti), l'Afghanistan riusciva comunque a evitare un impari confronto bellico con entrambi i Paesi. All'interno però il regime – riconosciuto soltanto da Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – doveva continuare ad affrontare la resistenza armata del Nord, guidata dal generale Ahmed Shah Massoud (islamico moderato ed ex ministro della Difesa, assassinato il 9 settembre 2001) e sostenuta dall'Iran, dall'India e dalla Russia, che ripetutamente accusava l'Afghanistan di appoggiare il terrorismo e le ribellioni delle vicine aree dell'ex Unione Sovietica, soprattutto in Cecenia, Uzbekistan e Tagikistan.
Nessun passo in avanti verso la pacificazione si otteneva nel marzo del 1999, giacché l'accordo, allora stipulato con l'opposizione per formare un governo di unità nazionale e un esercito comune, si rivelava ben presto fragile. La conseguente ripresa della guerra civile gettava la popolazione in una situazione tanto drammatica da screditare la stessa leadership dei Taliban presso l'etnia pashtō, stanca di un conflitto che in venti anni era costato un milione di vittime e recalcitrante ad arruolarsi nell'armata taliban, ormai in buona parte sostenuta da volontari reclutati nelle scuole religiose pakistane. Ulteriormente isolato nel mondo in seguito all'entrata in vigore delle sanzioni dell'ONU, il regime afghano si rendeva nel 2001 responsabile di altri gravi provvedimenti e atti barbarici, tesi a schiacciare i segmenti non islamici della società, come l'obbligo di portare segni distintivi per i non musulmani e la distruzione delle antiche statue di Buddha della valle di Bamiyan. Alla fine di settembre dello stesso anno, il regime dei Taliban, ancora una volta postosi come difensore indulgente di Osama Bin Laden e della sua organizzazione terroristica Al-Qāiʽda, i cui campi di addestramento erano situati in territorio afghano, trascinava il Paese nel più completo isolamento internazionale e lo conduceva verso un conflitto di maggiore entità rispetto alla guerra civile in cui versava da anni. Provata la responsabilità di Bin Laden come mandante degli attentati terroristici dell'11 settembre contro il World Trade Center di New York e il Pentagono, a Washington, il governo Taliban negava l'estradizione del terrorista saudita agli Stati Uniti, inducendo questi e i suoi alleati, appoggiati sia dal mondo occidentale sia da Paesi arabi come l'Egitto e l'Arabia Saudita, a sferrare i primi attacchi contro gli obiettivi militari taliban e i campi d'addestramento dei terroristi il 7 ottobre 2001. Abbandonati anche dal loro più fedele alleato, il Pakistan, e rafforzata l'opposizione del Nord da contingenti militari occidentali, i Taliban si trovavano a contrastare gli attacchi su più fronti e, all'inizio di dicembre, fiaccati dalle molte perdite e scalzati dalla loro ultima roccaforte, la città di Kandahār, erano costretti alla resa. Nel frattempo, a Petersberg, cittadina tedesca nei pressi di Bonn, si riuniva, sotto l'egida dell'ONU, un vertice fra i rappresentanti dei quattro maggiori gruppi etnici e politici afghani, al termine del quale veniva siglato un accordo sulla formazione di un nuovo governo, alla cui guida veniva posto il leader pashtō Hamid Karzai (vicino all'ex re Ẓāhīr), che si insediava il 22 dicembre. Il governo, del quale facevano parte anche due donne, aveva il compito di accompagnare il Paese fino alle elezioni.
Nel gennaio 2002 si insediava in Afghanistan una forza multinazionale di pace (ISAF), composta quasi per metà da soldati britannici, a cui contribuiva anche un contingente di 350 militari italiani. Nel giugno dello stesso anno si riuniva il Consigli degli anziani (Jirga), la grande assemblea tribale convocata nei momenti più delicati della storia del Paese, al termine della quale Karzai veniva eletto capo dello Stato. Nell'aprile del 2003 Karzai istituiva una commisione incaricata di redigere una nuova Costituzione, che veniva approvata dalla Jirga nel gennaio 2004. Nel gennaio 2004 veniva varata una nuova Costituzione secondo la quale l'Afghanistan è una Repubblica islamica di tipo presidenziale, ma senza nessun riferimento alla . Tuttavia i progressi in campo istituzionale non risolvevano i conflitti per il controllo del territorio che contrapponevano le forze fedeli al governo, i “signori della guerra” locali e la resistenza talebana. Nel settembre 2005 si svolgevano le elezioni legislative, in un clima di forti tensioni per la paura di attentati. Il governo era in grado di esercitare la sua autorità solo nella capitale e nei dintorni di essa, mentre le varie province continuavano ad essere controllate dai tradizionali “signori della guerra”. Gli attacchi aerei contro le basi dei Taliban provocavano spesso stragi di civili e contribuiivano ad aumentare l'ostilità verso le truppe della NATO (2007). Nel settembre 2008 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU prorogava di un anno il mandato della ISAF. Nell'agosto del 2009 si svolgevano le elezioni presidenziali che vedevano il presidente uscente H. Karzai nettamente in testa. In ottobre, però, la commisione elettorale afghana, accertati brogli e irregolarità nei voti, decideva di tornare alle urne per il ballottaggio tra Karzai e l'ex ministro degli esteri Abdullah Abdullah, che però decideva di ritirarsi. Karzai veniva così eletto presidente dalla Commissione elettorale indipendente.