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Tutto il mondo all’Expo (mah…)
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Se avessi scelto cosa fare dando ascolto soltanto alle mie sensazioni, non ci sarei andata a visitare Expo, meno che mai il penultimo giorno, dopo settimane in cui alla radio e alla televisione incrociavo l’immancabile servizio sulle interminabili code per entrare, sulla gente accalcata tra cardo e decumano per il gusto sovraeccitato di esserci. L’occasione di visitare Expo però mi si è presentata, e lo ha fatto con il nome di Cascina Triulza. L’ho colta questa opportunità, per curiosità, per farmi un’idea personale, perché dopo un anno in cui con la World Social Agenda ho discusso con insegnanti e studenti di diritto al cibo e sovranità alimentare, consigliando loro di visitare l’esposizione universale per essere prima informati e poi critici, non potevo fare diversamente. E poi perché rinunciare a uno sguardo dal vivo sulla manifestazione che negli ultimi sei mesi ha monopolizzato i media non era forse la mossa più astuta.
Dentro gli ipernominati padiglioni ci ho messo allora piedi (esausti), naso (a respirare nebbia e odori), occhi (riempiti di colori), orecchie (stanche) e, soprattutto, mente (il più possibile aperta). Per questo, al di là del mio scetticismo, comincio dalle lodi che, è innegabile, la manifestazione merita, spezzando la prima lancia a favore degli spazi esterni, dove la logica antica delle linee perpendicolari permette di muoversi in maniera sufficientemente agevole anche a fronte di numeri imponenti e dove l’architettura filtra l’aria nei polmoni; il secondo punto lo segna l’organizzazione, una gigantesca macchina sincronizzata che riesce a mantenere lo spazio ordinato e pulito per quest’invasione mondiale di curiosi; il terzo punto, appunto, i curiosi. Perché Expo ha avuto l’indubbio merito di sollevare un dibattito vasto e importante, dalle aule universitarie ai bar di paese. Che cosa da questo dibattito però ne sia uscito, è altra questione.
E allora, mi spiace, tocca anche soffermarsi su alcune mancanze di questo mega evento spalmato tra la periferia di Milano e il pianeta. A partire dagli spazi interni, sproporzionati per difetto rispetto all’affluenza avuta (e attesa). Inevitabili perciò le code, gli ingressi a scaglioni, gli imbuti, la difficoltà a interagire con molti degli spunti offerti all’interno (spesso touch screen e pannelli multilingue, carenti di suggestioni per immagini, profumi e suoni che avrebbero probabilmente reso più immediate emozioni e informazioni). Più di una volta ho sentito definire Expo come “il mondo in un solo posto”. In effetti è vero: persone in fila per qualsiasi cosa, spettacoli di luci a fine giornata per far scordare le insoddisfazioni, vetrine per vendersi come (spesso) non si è.
La critica più grande da fare a Expo è quella che, giornalisticamente parlando, si chiamerebbe “non essere sul pezzo”. L’afflusso di visitatori non mi ha impedito di visitare più di un padiglione, e i cosiddetti cluster tematici li ho visti quasi tutti: il riso, il cacao, il caffè, le spezie, il bio mediterraneo, le isole-mare-cibo, le zone aride: aree dove più Paesi erano ingolfati tra l’ansia di presentarsi (poco attraverso il cibo in questione, più con mercatini di artigianato locale spesso made in China) e l’ansia ancor più stringente di nascondere sotto il tappeto le criticità che, se scoperte, potrebbero contribuire notevolmente a un onesto commitment per “nutrire il pianeta”. Un esempio su tutti, il cioccolato: tra Lindt e Perugina, Nutella e filiera della raccolta e trasformazione del cacao, un solo piccolo stand nascosto alla vista della fiumana umana sul commercio equo di quest’oro nero delle nostre tavole. Nessun accenno alla schiavitù minorile nelle piantagioni, poca se non nulla l’enfasi sul biologico e sulla filiera breve e controllata.
Questo per non dilungarmi su altri paradossi, come ad esempio la presenza di multinazionali non esattamente note per il loro impegno socio-ambientale, come MacDonald’s o Coca Cola: tra parentesi, file anche in questi padiglioni, a dimostrare che la consapevolezza non è ancora sufficiente e che molti consumatori non sono ancora pronti a esercitare il loro potere.
Se il mondo è questo non mi piace, o meglio sarebbe potuto piacermi di più se il sottotitolo di Expo fosse stato un altro, qualcosa come “Culture, tradizioni e artigianato dal mondo” (e anche sulle tradizioni avrei qualcosa da ridire, perché in molti casi gli stereotipi-Paese erano amplificati e semplificati come in una vignetta di satira). Ma da una manifestazione che si prefiggeva come scopo una discussione sugli equilibri, e soprattutto sugli squilibri, legati a “Nutrire il pianeta, energia per la vita” mi aspettavo di più. Tutti dovevamo esigere di più: perché lo scopo di questa iniziativa non era solo quello - per carità, nell’ottica “del meno peggio” anche lodevole - di far assaggiare il cibo del Mali piuttosto che del Messico, non era una carrellata etnoantropologica di volti e costumi tipici, non era fare in modo che qualcuno sapesse geograficamente situare il Sudan o il Laos.
Lo scopo era quello di aprire e far aprire gli occhi su una piaga della contemporaneità, cercando soluzioni, discutendo prospettive e impegnandosi per forse qualcosa di più incisivo di una timida Carta di Milano. Principi e propositi, diluiti in quest’atmosfera, rischiano di apparire ancora meno concreti di quanto lo siano le parole scritte (alla faccia del verba manent) rispetto alla pressante realtà che spinge alle porte dei nostri documenti e che si incarna in profughi, migrazioni, guerre ed esasperazioni dovute a disuguaglianze e disparità davanti alle quali è ormai impossibile fare a finta di niente. Su questo non posso non essere d’accordo con Simone Perotti quando il 17 ottobre scorso si chiedeva su Facebook “Ma con tutti quei soldi, una cifra abnorme, non potevamo nutrirlo, invece di parlare di farlo? Prima valutazione: un colossale spreco, un enorme paradosso. Qualcosa che grida vendetta.”
Expo è stata una sagra di paese, scintillante, ma pur sempre una sagra, il cui scopo era piuttosto vendersi, mostrarsi, conoscersi, divertirsi, ma non certo dibattere criticamente per agire. Quello è stato invece lo scopo di Cascina Triulza, quella di cui vi parlavo, quella che “mi ha convinta ad andare ad Expo”. Un luogo un po’ defilato, ma non troppo se ti spingevi poco oltre il limitare del decumano: un luogo di pensiero ma anche di azione, dove ho avuto occasione di assistere alla presentazione di una selezione di buone prassi implementate dagli attori del terzo settore: dai laboratori didattici di Global Schools alla campagna Sulla fame non si specula di cui anche Unimondo è promotore, alla Carta di Trento, frutto di un percorso partecipato nato dalla collaborazione di numerosi attori della cooperazione e della solidarietà internazionale italiani.
Se non avessi conosciuto i volti che incarnano queste buone prassi e non ne condividessi il ripido cammino quotidiano, penserei che la proporzione tra eventi istituzionali, di enorme portata e ancor più enormi aspettative, è inversa al potere di cambiamento a cui teoricamente auspicano. Però c’ero. E questa giornata a Cascina Triulza ai telegiornali nessuno l’avrebbe raccontata. Perciò torno a casa con la sensazione che sia valsa la pena partecipare anche solo per condividerla con voi, perché anche lì dove premesse poco avvincenti si traducono per lo più in verità sconsolanti, occhi attenti e menti ostinate trovano ancora la forze e l’entusiasmo di continuare nelle proprie sfide.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.