Tu che lavori a distanza, come ti invidio

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Li abbiamo conosciuti - e guardati con particolare ammirazione - durante la pandemia. Ma continuano a suscitare in noi un certo desiderio di emulazione anche adesso, alimentato a tradimento dalla promozione mediatica e dalle nostre bacheche social: spiagge incontaminate e pc portatile appoggiato sulla sdraio, finestre aperte su panorami mozzafiato e tazza di the caldo fumante che spicca sulla scrivania accanto al tablet.

Sono i cosiddetti “nomadi digitali”, quel “network state” di popolazione trasversale agli stati e alle culture che si riconosce come ideologicamente allineato e geograficamente decentralizzato. Insomma, per dirla in parole più semplici, quei fortunati che svolgono lavori mobili e che possono permettersi, con un budget variabile ma non esagerato, di lavorare ovunque, scegliendo il luogo e lo scenario che più li ispira e che più preferiscono, puntando a slegarsi da quella sottoscrizione automatica che ci incolla a un luogo per la pura coincidenza della nascita. Una visione utopica del mondo del lavoro ritagliato su misura delle proprie inclinazioni ed esigenze, che si è concretizzato in un bacino di visionari digitali dallo stile inconfondibile - e invidiabile. Ma sono davvero così fortunati?

Prima della pandemia, lo stereotipo più popolare avrebbe descritto questo tipo di professionisti come sregolati millennial con un anomalo rapporto con le istituzioni nazionali e statali, fuggiti dalle grinfie delle quotidiane mortificanti abitudini legate al tragitto casa-ufficio-casa per lavorare invece in qualche trendy café vista mare, condizionati da una nuova piramide dei bisogni di Maslow dove la qualità della connessione wi-fi è bisogno primario. Un numero non esiguo di lavoratori, che si stima nel 2035 raggiungerà il miliardo.

Se prima dell’esplosione della pandemia erano in pochi a lavorare da remoto (il 12% negli Stati Uniti, il 5% nel Regno Unito) e durante le quarantene molti sono stati costretti a tornare a casa per beneficiare dell’assistenza sanitaria nazionale, post pandemia questo stile di vita è rinato con nuovo impeto, orientandosi in maniera sempre più decisa a diventare una delle principali forme di lavoro da considerare per il futuro, dimostrando che quella del lavoro a distanza è un’opzione per molti più lavori – e lavoratori – di quanto di pensasse. Anzi, paesi come Le Barbados, l’Estonia e il Portogallo hanno incoraggiato questa tendenza prevedendo visti specifici per i lavoratori a distanza che volessero ricollocarsi sul loro territorio. Ma il trend fa pensare che la direzione presa sia ancor più decisa e decisiva, diretta verso il trasferimento dello Stato-nazione su cloud e il venir meno dell’istituzione statale stessa e di quegli strumenti fino ad oggi dati per consolidati, come la cittadinanza, i passaporti e le tasse. Obiettivo: rimuovere i confini geografici in quanto barriera all’espressione di uguali opportunità per tutti e tutte e di uguali libertà. È tutto così facile e roseo?

In realtà l’idea di un’apolidia digitale è piena di complicanze quotidiane, in special modo per lo stereotipo del giovane bianco occidentale che i media tendono a perpetuare: gli appartamenti subaffittati, la necessità di avere un indirizzo di residenza permanente e i garbugli per l’ottenimento dei visti o per avere adeguate coperture sanitarie sono solo alcune delle difficoltà e delle contraddizioni che emergono. 

I nomadi digitali incrociano i sentieri di turisti e backpackers, pur non essendolo. Scelgono la libertà, anche se non è sempre chiaro come essa si esprima e si configuri: libertà di lavorare ovunque si desideri, libertà imprenditoriale, libertà di avere il controllo sulla propria vita e sulle proprie scelte, di far riferimento a un’economia dell’accesso e non del possesso, scegliendo uno stile di vita, non uno stile di lavoro. Ma le sfide per renderlo sostenibile sono principalmente di ordine pratico: le assicurazioni sanitarie per i viaggiatori solitamente coprono un massimo di 30 giorni, che per chi intraprende scelte di vita/lavoro di durata maggiore non funzionano; la burocrazia di ciascun Paese è poi un coacervo di regole diverse tra le quali doversi orientare, tenendo in considerazione le singole politiche dell’immigrazione; la questione degli stipendi non è da meno, perché incrocia problematiche etiche legate al tipo di salario ottenuto e al luogo in cui quel salario lo si è guadagnato (e qui torna in campo anche il problema delle tasse, oltre a quello di ricevere magari un salario newyorkese pur vivendo – e spendendolo – a Bali).

Insomma, vivere lavorando il giusto e viaggiando può diventare da un lato un sogno, dall’altra un incubo, che può anche verosimilmente tradursi in un nuovo precariato online, verso il quale le nuove tecnologie spingono ma che può rivelarsi basato su sistemi di guadagno passivi e la cui etica presenta aspetti discutibili, senza contare che, se da un lato la libertà di movimento è un diritto umano, dall’altro lato ci sono cose che, per esistere, hanno bisogno di luoghi. E anche in questo caso il privilegio del nomadismo digitale dipende ancora una volta dal luogo dove sei nato e, ancora e purtroppo, dalle circostanze economiche in cui ti trovi.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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