Trappola birmana

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È stata una sorpresa anche per me, trovare dei nostri gilet ‘Made in Myanmar’, ma lo faremo presente alla ditta che ce li ha forniti”, assicura a Il Manifesto il Responsabile per le Politiche Europee e Internazionali della CGIL, Salvatore Marra. Tutto inizia con delle foto che ci sono pervenute. Mostrano gilet smanicati rossi con il logo della più antica organizzazione del lavoro esistente in Italia.

A realizzarli, almeno sulla base dell’apposita targhetta di cartoncino esterna, la Clique Abbigliamento di Codogno (Lo). Mentre le etichette cucite all’interno riportano i dati della ditta svedese New Wave Mode AB, la certificazione di tracciabilità e sostenibilità del tessuto Oeko-Tex e, come detto, dove sono stati prodotti: “Made in Myanmar”.

Nazione, quest’ultima, dove dal primo febbraio 2021 hanno preso il potere con un colpo di stato i militari sospendendo la democrazia. Nel settore dell’abbigliamento, nell’ex Birmania, “tutti i contratti sono stati cancellati: si lavora oltre 60 ore la settimana, gli straordinari sono obbligatori e non retribuiti, il salario è di appena 1,78 euro al giorno, i sindacati sono stati vietati e per tutti i loro leader è stato emesso un mandato di cattura”, confermò a Il Manifesto l’estate scorsa Cecilia Brighi, segretaria generale dell’associazione Italia-Birmania Insieme, per l’inchiesta “Gli schiavi del telaio”.

Un problema noto da tempo anche al Governo italiano: proprio Italia-Birmania Insieme nell’aprile 2023 ha presentato un’istanza al punto di contatto del Ministero delle Imprese e del Made in Italy per segnalare tutti i marchi di abbigliamento italiani che continuano a produrre i loro capi sporchi del sangue birmano...

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