Storie di migrazioni nel continente africano

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Foto: L. Michelini ®

In Africa, ogni anno sono moltissimi i migranti che cercano di lasciare il proprio paese per trovare un lavoro e aiutare così la loro famiglia. Di questi, la stragrande maggioranza, circa l'80% (Africa Center for Strategic Studies, 2020), viaggia verso altri paesi africani. 

Ma di quanto accade a queste persone, che per vari motivi sono costrette a rientrare nel loro paese natale in seguito a un percorso migratorio che li ha portati a stare lontano da casa per molto tempo, si sa poco.

Moussa C. ha appena 22, ma una storia alle spalle che ne vale almeno il doppio. Moussa è maliano, originario del comune di Fanafiecoro, una quarantina di chilometri da Bamako. A soli 17 anni è partito per la Costa d’Avorio: “Ho preso un autobus e mi sono recato a Bouaké, nel centro del paese”, racconta. “Sono andato via per cercare un impiego, ero da solo e non conoscevo nessuno quando ho intrapreso il viaggio”. 

Moussa ha lavorato come contadino nelle piantagioni di igname, un tubero largamente consumato in tutta l’Africa Occidentale. “Nelle piantagioni funziona così: ti reclutano, lavori tutto l’anno e la paga arriva una volta terminata la raccolta. A quel punto puoi scegliere se ricevere lo stipendio oppure un campo da coltivare per conto tuo. I soldi o la terra”. 

Il ragazzo, ha scelto la seconda opzione e dopo due anni di lavoro ha iniziato a coltivare per sé stesso. Produceva molto igname, che mandava in Mali per essere venduto. “Avevo una grande piantagione dove ho lavorato senza sosta per tre anni, assumendo anche dei collaboratori”. Il giovane è rimasto in Costa d’Avorio dal 2013 al 2018 e, se non fosse stato per la malattia della madre che lo ha convinto a rientrare, ora sarebbe ancora lì. 

“Conservo un buon ricordo del tempo passato in Costa d’Avorio. Sono dovuto rientrare in Mali perché mia mamma era malata. I miei fratelli mi telefonavano in continuazione, pregandomi di ritornare. Così ho deciso di vendere tutto, rientrare a casa e prendermi cura di lei”. 

Mentre racconta la sua storia, Moussa è serissimo. Nonostante la giovane età ha un’espressione adulta e consapevole, di qualcuno che della vita ha assaporato solo il lato amaro. “Oggi cerco di lavorare nell’agricoltura, ma la mia è agricoltura di sussistenza, non riesco a mettere da parte quasi nulla. I raccolti spesso non bastano o sono rovinati dalle piogge, che in Mali sono sempre più violente”. 

Continua a raccontare Moussa, ritornando con la memoria al periodo del rientro in Mali: “Quando sono tornato a casa, le cose non sono state molto semplici, soprattutto con la mia famiglia”. Capita spesso, infatti, che i migranti di ritorno non vengano accettati dalla comunità. “Tutto quello che avevo guadagnato, l’ho dovuto spendere per le cure di mia madre: abbiamo cambiato vari ospedali e varie cure, dalla medicina classica a quella tradizionale. Ora sembra che stia meglio, ma gli atri membri della famiglia mi hanno manifestato rancore perché si sono sentiti trascurati. Ci sono restato così male che ad un certo punto volevo quasi ripartire”. 

Come Moussa, anche diverse donne provano a spostarsi per cercare di aiutare economicamente la famiglia, come N’Djo, che a 19 anni è partita da sola anche lei per la Costa d’Avorio. 

Viso dolce, sguardo spontaneo. Nonostante i racconti pieni di dispiacere che rivive nel ricordare la sua storia, N’Djo col suo sorriso sembra quasi sfidare la dura memoria. 

N’Djo ha 22 anni e viene da Kambila, cittadina rurale nella Regione di Koulikoro. Anche se non ha frequentato un solo anno di scuola, N’Djo parla un ottimo francese che ha imparato lavorando per vari anni lungo le strade trafficate di Abidjan. 

“Dopo la morte di mio padre, qualcuno doveva pur pensare alla famiglia, quindi nel 2017 sono partita sperando di trovare un lavoro”. Ad aspettarla nella capitale della Costa d’Avorio uno zio, che l’ha ospitata per i primi tempi. “Inizialmente ho fatto la donna delle pulizie, lavoravo nelle case degli altri e mi occupavo un po’ di tutto. Ma successivamente ho pensato di trovare un altro lavoro e lasciare la casa di mio zio, dove mi sentivo di troppo. Così ho trovato un lavoro per una signora, nel commercio informale. Vendevo sacchetti d’acqua per strada”, racconta la ragazza. 

“Non è stato facile, non tanto per il tipo di lavoro che, sì, era faticoso, ma quanto per come mi trattava la padrona. Se sbagliavo qualcosa o se non vendevo abbastanza, mi rimproverava e mi gridava addosso. E queste violenze verbali erano all’ordine del giorno: ogni sera, quando le mostravo il fatturato della giornata, prendevo sempre parole. Così dopo qualche anno non ce l’ho più fatta e ho deciso di fare ritorno in Mali”.

Per la ragazza, migrare in un paese straniero ed ambientarsi ad una cultura, una lingua e un modo di vivere non suoi, non è stato assolutamente semplice, ma le difficoltà non sono terminate neanche nel viaggio per rientrare in Mali. “Durante il viaggio di ritorno, nella frontiera tra la Costa d’Avorio e il Mali, i militari ivoriani hanno fermato l’autobus sul quale viaggiavamo e ci hanno derubati, hanno preso tutti i soldi che avevo con me, lasciandomi in cambio molta paura”.  

N’Djo è tornata in Mali nel 2020 e al momento non ha ancora trovato un lavoro. “Non credo che starò qua ancora per molto”. 

Lei è solamente uno dei tanti esempi di migranti che una volta rientrati nei loro luoghi d’origine si trovano costretti a ricominciare daccapo. Un nuovo lavoro da cercare e un ruolo nella società da ricostruire.  

Non è per nulla facile e il rischio di scoraggiarsi e ripartire è altissimo. 

Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.

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