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Sintetichamburger
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“S'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche!” Così l’infelice uscita che ha reso incerta l’attribuzione ed eterne le parole di Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, non si è ancora ben capito se per sferzante ironia o se per ingenua stupidità. Parole che in ogni caso, oggigiorno, potrebbero essere reinterpretate in un contemporaneo “Se non vogliono la carne, che mangino gli hamburger sintetici!”, e non per povertà né per ostinazione, ma perché ce lo dicono inquietanti predizioni riguardanti il nostro futuro alimentare.
Il fatto che a rendere commestibile l’impensabile sia un’azienda che si chiama Impossible Food, il cui organico è prevalentemente costituito da biochimici e informatici più che da cuochi, forse non è un caso. E che sia Google che Bill Gates abbiano proposto allettanti offerte economiche per acquisirne la proprietà, oltre a darci ancora una volta un segnale forte sul loro fiuto per gli affari, è segno inequivocabile di una prospettiva immaginabile: una probabilissima espansione planetaria di quello che, ad oggi, è un business ancora limitato ma indubbiamente in crescita.
Ho sempre pensato che essere vegetariani, indipendentemente dalle ragioni per cui lo si è o lo si diventa, sia una scelta che non debba far rimpiangere la carne. Se si decide di non mangiare cadaveri – espressione un po’ forte ma sempre molto sintetica ed efficace –, che lo si faccia a favore dell’ambiente, della salute, dei diritti animali o dell’etica, la domanda rimane la stessa: che bisogno c’è di rimanere legati nell’immaginario di consistenze, sapori e aspetto a quegli stessi alimenti che si è scelto di escludere dalla propria dieta? E’ una questione che però si pone di fronte alla recente fortuna dei cosiddetti “imitatori vegetali high tech”, quelli che, in parole povere ma con costi per ricchi, puntano su prodotti vegetali processati e lavorati al punto tale da diventare irriconoscibili e poter ammiccare sornioni ai nostalgici dei prodotti animali.
Come ci racconta bene Silvia Ribeiro, direttrice del Gruppo ETC per l’America Latina, e in traduzione di Daniela Cavallo su Comune-info, è un giro d’affari con risvolti da fare invidia a un giallo di Dan Brown, che ha password di accesso complesse quanto si conviene alla custodia di segreti preziosi e che spalanca le fauci su ingredienti a dir poco sgradevoli. Uno di questi si chiama, per esempio, leghemoglobina (in inglese SLH, o semplicemente “heme”). Cos’è? E’ un derivato dell’ingegneria genetica che l’Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali degli Stati Uniti (FDA nel suo acronimo inglese) non ha approvato come sicuro per la salute umana ma che, malgrado ciò, dal 2016 l’azienda Impossible Foods ha messo sul mercato con un effetto che è un trucco di magia: simulare per incauti e disinformati consumatori consistenza, calore e sanguinamento (sic!) di un hamburger animale. “La leghemoglobina usata per questo hamburger, è una proteina creata in laboratorio che ne imita una presente nella radice delle piante di soia, ma viene prodotta, all’interno di serbatoi, da microbi alterati mediante la biologia sintetica. Nei documenti presentati dall’azienda alla FDA, l’agenzia ha avvertito che secondo i dati forniti, l’heme, ingrediente chiave dell’hamburger, non rispetta gli standard per lo status di sicurezza generalmente riconosciuti. L’impresa ha ammesso che, nel processo di ingegneria genetica, per l’heme si erano generate 46 proteine supplementari inaspettate, nessuna delle quali era stata valutata nel dossier presentato alla FDA.” Come si legge sul sito di ETC, “Esta etiqueta, GRAS, por las siglas en inglés de Generally Recognized as Safe, permite al fabricante decidir por sí mismo, sin opinión de la FDA, si un producto es o no seguro para el consumo”. In pratica un’autocertificazione, e buon appetito.
Anche Riccardo Staglianò, giornalista di Repubblica, ne ha addentato e “scomposto” uno lo scorso luglio, raccontandocene sensazioni e ingredienti: “Il primo […], indispensabile per la consistenza masticosa, sono le proteine estratte dalle patate e dal grano, che si presentano come un trito di medie dimensioni. Fondamentale per il sapore è invece l’eme, la parte dell’emoglobina che contiene il ferro. In pratica la sostanza che dà al sangue il sapore metallico, nonché il suo colore rosso. E che dell’Impossible Burger è un po’ la firma dal momento che, una volta estratto attraverso un procedimento brevettato dalle radici della soia e di altri cereali, mescolato con il macinato di patate lo fa già stupefacentemente assomigliare all’originale. Quindi arrivano lo xantano e il konjac, i due emulsionanti che conferiscono la plasmabilità al composto. E infine i grassi, per il sapore e l’effetto sfrigolio, ottenuti dall’olio di cocco (privato dell’odore per evitare un imbarazzante effetto Bounty) e dalla soia. Questo, almeno, è quello che si può dire davanti ai cronisti a cui è fatto tassativo divieto di scattare foto dentro al laboratorio perché è lì che l’alchimia ha luogo”.
Analoghi esempi di questi sostituti alimentari sono ad esempio i prodotti della Perfect Day (imitazioni di latte di vacca) o della Clara Foods (albumi), tentativi di approfittare del calo dei consumi di alimenti animali, grazie anche a sempre più frequenti indagini e campagne di sensibilizzazione contro gli allevamenti intensivi, a favore di una produzione industriale che è molto vicina a diventare una degna sostituta dell’industria delle carni, non tanto per le alternative proposte, ma per la stessa noncuranza nei confronti di rischi (allergeni, ma non solo) e diritti. In molti casi i protagonisti sono ingredienti sconosciuti ai più, derivanti da microbi o lieviti alterati geneticamente in vasche di fermentazione mediante la biologia sintetica: poche normative, poca sostenibilità, poca trasparenza.
Insomma, niente di confortante… e meno che mai appetitoso. Senza contare che, se proprio volessimo fare pelo e contropelo a certe politiche aziendali che assicurano miglioramenti e correzioni ma continuano a restare nascoste in protocolli segreti che neanche le ricette degli chef stellati, testare prodotti per un bacino di clienti vegetariani su topi da laboratorio non ci regala esattamente quel quid di coerenza aggiunta che ci fa apprezzare e scegliere un’azienda e i suoi prodotti. La questione è molto complessa, è inevitabile, ma di una cosa possiamo essere sicuri: se mettere in discussione l’allevamento industriale degli animali è un gesto completamente giustificato per una vasta gamma di ragioni, non abbiamo affatto bisogno di cambiarlo per un’altra industria nociva e rischiosa, e ancora una volta, forse, dovremmo guardare di più alla produzione contadina, agro-ecologica e locale per trovare alternative reali, sane e provate.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.