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Schiavitù: una giornata per ricordare e interrogarsi
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Yanga, Zumbi dos Palmares, 'Nanny', Toussaint Louverture: in qualche modo tutti "eroi dei due mondi", eppure oggi tutti sconosciuti o quasi. E dire che nella giornata internazionale odierna scelta dall'Onu "in ricordo del commercio degli schiavi e della sua abolizione" - momento alto dell'intero 2004 dedicato allo stesso tema - dovrebbero essere più che mai i veri protagonisti. Perchè oggi?
L'Unesco, ente del Palazzo di Vetro per l'istruzione, la scienza e la cultura, in un messaggio del suo direttore generale Koichiro Matsuura, ricorda: " La data del 23 agosto si riferisce all'insurrezione che cominciò nella notte tra il 22 ed il 23 agosto 1791 nell'isola di Santo Domingo (oggi divisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana) condotta da Toussaint Louverture, il primo generale nero. La rivolta condusse alla prima decisiva vittoria di schiavi contro i loro oppressori nella storia dell'umanità".
Forse non è un caso che Haiti abbia poi avuto la difficile vita che ha avuto e che ancora oggi, certamente poco aiutata, anzi ancora sfruttata e manipolata da interessi internazionali potenti, non riesca a uscire dalla sua più recente crisi, ultimo capitolo di una storia malata che la rende una delle nazioni più povere della Terra. Viene il sospetto che, dopo più di due secoli, questa prima incredibile vittoria di un popolo oppresso - come altre in qualche altro grande Paese - non sia stata ancora pienamente perdonata.
Non è forse il persistere di varie subdole forme di una sorta di 'neoschiavismo' per lo meno 'morale' - a termini di legge la violenza non direttamente fisica, almeno sulla carta, è seriamente punibile - la causa o un decisivo co-fattore anche dietro molti drammi individuali e collettivi specialmente nel sud del mondo e in particolare in Africa? Anche se non sono stati pochi comunque gli africani che hanno combattuto ovunque nel mondo per recuperare la loro libertà senza neppure attendere il tardivo, spesso flebile e comunque solo recente aiuto di qualche raro 'uomo bianco'. Raramente bianco anche nella coscienza di genuino non colonialista come lo svedese Olof Palme, non a caso misteriosamente ucciso (senza mai un colpevole né un movente ufficiali) proprio dopo essersi acquistato la fama di campione degli africani più deboli e aver concluso tra l'altro accordi più equi sul commercio del loro caffè.
Chi sa o ricorda oggi gli anonimi schiavi neri fuggiaschi che nel XVII secolo, nelle foreste dello stato brasiliano di Palmares, ricostruirono villaggi africani chiamati 'quilombo' dove resistettero alla 'riconquista' per 65 anni anche grazie al loro comandante più famoso 'Zumbi dos Palmares'? E chi ha mai sentito parlare della coraggiosa e non meglio identificata 'Nanny', appartenente al popolo Asante del Ghana, che guidò gli ex-schiavi della Giamaica in guerra contro gli inglesi dal 1720 al 1739. O di Yanga, lo schiavo di ascendenza reale che, tratto in catene in Messico nella seconda metà del 1500, vi sconfisse i potenti conquistadores spagnoli e li costrinse a ribattezzare con il suo nome l'abitato montano di San Lorenzo de Los Negros nello Stato di Veracruz. Poco noto eppure rilevante è il fenomeno dei "maroons", di cui Yanga è pioniere quasi dimenticato, schiavi sfuggiti al padrone nelle Indie Occidentali tra il XVII e XVIII secolo, protagonisti di uno dei primi dimenticati capitoli della mai conclusa battaglia contro la schiavitù. Curiosa e non priva di illuminanti significati la parola anglo-franco-spagnola-latina scelta per identificarli: dietro quel maroon si nasconde il francese che sta per castagna ma anche per il colore della buccia (della pelle in questo caso); e l'inglese dell'abbandonato su un isola; ma anche lo spagnolo di cimarron ( e il latino di 'cima') che sta per selvaggio, ribelle, fuggito sulla cima delle montagne. Proprio come il nobile Yanga.
Più tardi non mancarono molto più a nord altre rivolte sorrette da una più avanzata elaborazione politica e con qualche primo appoggio dell'uomo bianco. Come quella che nel 1859 - dieci anni dopo aver lavorato con la comunità nera newyorchese di North Elba - il bianco John Brown (ironia e fatalità di un cognome!) aveva tentato di innescare, ormai quasi sessantenne, in West Virginia, saccheggiando il deposito d'armi di Harpers Ferry per aiutare i suoi protetti neri. La rivolta fallì e Brown venne impiccato poche settimane più tardi.
Meno di quattro anni dopo, il presidente Abraham Lincoln emanava l'Emancipation Proclamation che fu il primo sia pur a lungo inapplicato passo sulla strada dell'abolizione della schiavitù. Agli albori del XX secolo si tennero poi le prime riunioni antisegregazioniste di Niagara Falls, la zona delle celebri cascate, storico e negletto terminale della "Underground Railway", il treno che dagli Stati Uniti trasportava clandestinamente un'altra stirpe di nuovi maroons in Canada, isola ospitale e meno razzista. Con quel treno e in quelle riunioni si posero le basi del sogno di Martin Luther King.
Ma gli schiavi, più o meno manifesti, sembrano non finire mai nella storia. Cosa altro sono oggi se non schiavi di una situazione internazionale complessa (e a volte anche perversa) i "boat people" che continuano a solcare miseramente il Mediterraneo? E le bambine e i bambini 'arruolati' come militari o piccole etère da pseudo-signori della guerra come Joseph Kony a cavallo tra nord Uganda e Sudan? I giornali riempiono facilmente le loro colonne e alcuni radical-chic saturano i salotti con chiacchiere più o meno accurate sul mercato sudanese degli schiavi - fenomeno complesso con radici storiche e caratteristiche molto diverse da quelle dipinte da mode e propaganda corrente - ma chi ha il coraggio di compiere più impegnativi e meno esotici esami di coscienza ravvicinati?
Come possono essere definiti se non neo-schiavi nemmeno riconosciuti come tali i milioni di minori sfruttati in lavori pericolosi e quasi non pagati - soprattutto nel sud del mondo ma non solo - da tante multinazionali che hanno costruito le loro costose griffe modaiole proprio su questo lurido presupposto? E non sono forse neo-schiave tante donne del sud del mondo o dell'Europa dell'est esposte anche a qualsiasi rischio nelle strade del vizio o sfruttate come colf illegali e malpagate nel chiuso di dimore europee ricche ed eleganti? Sono forse liberi gli "yes-men" che pullulano in alcuni governi e nelle grandi aziende di tutto questo nostro mondo 'globale'? E' verità lapalissiana e ribadita ogni giorno che, se per qualche ragione diventano "no-men" possono perdere il posto di lavoro, come ha senza equivoci dimostrato perfino un cosiddetto 'reality show' un programma televisivo americano del tipo 'Grande Fratello' in cui il miliardario Donald Trump simulava untuose assunzioni e spietati licenziamenti.
Non intendeva certo riferirsi a queste nuove subdole forme di schiavismo morale il buon Matsuura quando nel dicembre 2003 - ricordata anche la conferenza mondiale di Durban contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenophobia e altre forme di intolleranza - annunciò che l'Assemblea dell'Onu aveva approvato il programma dell' anno contro la schiavitù. Ma l'iniziativa e le sue parole dovrebbero essere tenute sempre presenti come una bussola vicina e non una lontana e tremolante stella polare oscurabile dalle spesse nubi del disumano materialismo che sembra sempre più caratterizzare il mondo di oggi.
Rileggiamo allora insieme la 'replica', questa volta firmata, dell'articolo con cui il 12 gennaio scorso il nostro notiziario dava annuncio dal Senegal dell'inaugurazione dello speciale anno in corso. Poco è stato fatto finora, a dire il vero, ma cerchiamo di vivere quel che ne rimane, rispondendo all'appello che costituisce il 'pensiero del giorno' che apre il notiziario Misna e all'insegna delle parole di Matsuura: "Il commercio degli schiavi e la schiavitù costituiscono uno dei capitoli più oscuri nella storia del mondo (....)Assicurare una presa di coscienza universale della tragedia del commercio degli schiavi e della schiavitù è un compito essenziale rilevante non solo per il passato ma anche per il presente e il futuro. La sua importanza educativa, etica e civica può essere grande se riusciamo a prestarvi sufficiente attenzione ".
di Pietro Mariano Benni