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Salute mentale, parliamone
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Foto: Finn da Unsplash.com
Tu prova ad avere un mondo nel cuore
E non riesci ad esprimerlo con le parole
E la luce del giorno si divide la piazza
Tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa
E neppure la notte ti lascia da solo
Gli altri sognan sé stessi e tu sogni di loro.
Con queste parole prese in prestito a De André, sempre e purtroppo ancora molto attuali, apro il pezzo di oggi. Che parla di matti? No, o forse sì. Perché è pur vero che oggi parole così forti siamo inibiti a usarle, ma è anche altrettanto vero che cambiare le parole non implica automaticamente cambiare punti di vista e pensieri. L’evoluzione sociale e culturale, quando riguarda certi ambiti e certe forme di disagio o malattia, è un processo ancor più lungo e articolato, fitto di ostacoli e trappole. La più grande delle quali, ahinoi, è il silenzio.
Di salute mentale, infatti, si parla sempre troppo poco. E meno se ne parla, più si ingigantiscono paure e censure. Chi non le vive sulla propria pelle fa fatica a rendersene conto e coglierne le trappole. Perché sono per lo più invisibili, così come vengono definite spesso malattie come stati d’ansia, attacchi di panico, depressione, disturbi borderline, bipolarismo. E di cose invisibili non si parla giusto?
No, non è giusto. E lo sappiamo. Ci sono ambiti del nostro vissuto, individuale e collettivo, che meriterebbero certamente una maggiore consapevolezza, tradotta in parole oneste, non giudicanti, empatiche. Sembra però che il grado più elevato di empatia, quando si tratta di questi temi, si limiti a “Stai calmo”, “Non agitarti”, “Respira che ti passa”. Sì, crediamoci.
Mettersi a confronto con le fragilità che questi tempi portano sempre più a galla non è facile. Siamo assediati da buchi neri che ci risucchiano verso l’assenza di significati, risposte, certezze, solidarietà. Siamo circondati da domande profonde che non ci poniamo per non fare i conti con la nostra traballante instabilità. Ci manca la consapevolezza delle emozioni, se ancora sappiamo davvero emozionarci. Perché a volte ci sembra più conveniente, e quindi anche più giusto, accontentarci di acque chete, come se la vita fosse un mare calmo su cui farci uno spritz a bordo di un pedalò, senza neanche la fatica di pedalare. Ma davvero è reale? È questo l’orizzonte che vogliamo vedere, polarizzati da occhiali che edulcorano la realtà con una patina di normalità? È così che vogliamo vivere, ostracizzando quelle sensibilità più fragili anziché avvicinandole e incontrandole?
La complessità ha confini porosi, spesso inesistenti. Chi la percepisce nella pelle e nel cuore spesso soccombe. Chi la teme, la evita con accurata galanteria, lasciandola alle aule, a chi si crea problemi inutili, ai deboli, agli altri.
Si tratta di malattie spesso scaturite da quelli che, con un’altra parola che fa rabbrividire molti, si chiamano traumi. Scossoni che mettono in discussione la nostra capacità di stare al mondo, determinati non tanto da ciò che ci accade, ma da come noi reagiamo a quello che ci è accaduto. A questo proposito c’è un progetto interessante sul quale se avete voglia potete informarvi: si chiama proprio The wisdom of trauma, una sfida tradotta in molte lingue per sollecitare la necessità di riconoscere la presenza del trauma a livello individuale e collettivo. Per una società in cui si possano onestamente e senza colpe riconoscere determinate reazioni emotive come dovute all’attivazione di ferite pregresse e comprendere l’incidenza del trauma sui nostri comportamenti, il suo impatto sulle nostre relazioni con gli altri, riconoscendo la sofferenza come informatrice di comportamenti e al contempo riuscendo a vedere l’altro oltre quegli stessi comportamenti, con compassione ed empatia. Perché sentirsi compresi e al sicuro è il primo passo verso una guarigione, che spesso è intergenerazionale così come lo è stato il trauma. Lui, sì, una forza invisibile che informa le nostre vite: il modo in cui viviamo, amiamo e diamo un senso alle cose del mondo. I traumi sono radici delle nostre ferite più profonde, che una società consapevole non va a correggere nei comportamenti, facendo diagnosi, sopprimendo sintomi ed emettendo sentenze, ma cerca invece di comprendere. Perché conoscere – e conoscersi – sono passi imprescindibili per una comunità che voglia crescere oltre lo stigma dell’isolamento, della condanna, del compatire. Una società che sappia avere il coraggio di chiedere aiuto, di capire i tempi del passato e del presente prima ancora dei perché. Perché solo così può esserci anche quel terzo tempo da giocare, coniugato al futuro.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.