Salute mentale: catene che persistono, vicine e lontane da noi

Stampa

Uomini e donne di età diverse si aggirano scalzi intorno alle capanne. Quasi tutti hanno i ferri ai piedi, che non permettono loro di muoversi liberamente, mentre alcuni sono addirittura incatenati a dei ceppi, o agli alberi: sono i malati psichici custoditi nei famigerati “campi di preghiera” che ancora vengono allestiti in alcune parti dell’Africa, dal Benin al Togo, al Ghana e non solo. Vengono “curati” con le preghiere, appunto, ma anche con i digiuni, le bastonate e le percosse, per “purificare” le loro anime e far uscire gli spiriti maligni dalle loro teste. Se ne parla nel documentario “Rejetés” di Antonio Guadalupi, che racconta l’esperienza di Grégoire Ahongbonon, 65enne del Benin, che ha fatto della liberazione di questi sfortunati dalle catene – così come di un approccio diverso e “più umano” alla malattia mentale – la sua ragione di vita. Definito “il Basaglia d’Africa”, Grégoire si trova in questi giorni in Italia per un tour di presentazione di un libro a lui dedicato, scritto dal giornalista Rodolfo Casadei, e forse non è un caso: in questi giorni si celebra infatti il 40° anniversario la legge di riforma psichiatrica conosciuta come 180 (o appunto Legge Basaglia) che, promulgata in Parlamento nel 1978, ha portato in Italia alla chiusura dei manicomi. Un’occasione per riflettere su quanto conquistato finora, con la consapevolezza che la strada è ancora lunga e che situazioni come quelle africane – ovviamente in diverso contesto – erano prerogativa anche del nostro paese fino a non molto tempo fa: stigma, paura, pregiudizi, superstizioni, ignoranza, abusi, erano spesso ciò che contraddistingueva la presa in carico di queste persone sfortunate che finivano rinchiuse, abbandonate e dimenticate dalla società.

Oggi in molti Paesi africani non è molto diverso, e spesso coloro che soffrono di disturbi e malattie psichiche vengono marchiati come posseduti da spiriti maligni o dal demonio. Le famiglie si rivolgono così dapprima alla medicina tradizionale africana, quindi agli stregoni; quando questa forma di cura non funziona – e il denaro finisce – molti malati vengono abbandonati nei campi di preghiera, o segregati, incatenati agli alberi e ai pali, anche per anni, sotto la pioggia o il sole, spesso condannati a morire di fame e di sete. Munito di cesoie, seghetto, mazze e martello, Grégoire Ahongbonon ha girato l’Africa, villaggio per villaggio, alla ricerca di persone malate da liberare, per poi accompagnarli in luoghi sicuri e avviarli a determinati percorsi di cura. I suoi centri, aperti all’inizio in Benin, e poi in Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo, finora hanno ospitato oltre 60 mila persone. L’ispirazione basagliana c’è tutta: anche qui l’attenzione è focalizzata sulla persona prima che sulla malattia, in un approccio basato soprattutto sulle relazioni umane. Si sta dunque insieme, si stimola la creatività e la manualità, s’impara un lavoro, tanto che buona parte dello staff di questi centri oggi è composto da pazienti in fase di recupero ed ex pazienti ormai guariti. 

Non bisogna dimenticare che, a livello istituzionale, in Africa esistono pochissime strutture dedicate all’accoglienza di questi malati e la salute mentale è stata storicamente trascurata dalle agende politiche– così come dalle agenzie di sviluppo internazionali, che nella loro azione tendono a dare priorità a problemi come guerra, povertà, malattie infettive, mortalità materna e infantile. Questa tendenza è spesso aggravata dall'ignoranza sull'entità di questi problemi, dallostigmanei confronti di coloro che vivono con malattie mentali e dalla convinzione errata che le malattie mentali non possano essere curate. Secondo studi dell’Organizzazione mondiale della sanità, in Africa il 30% della popolazione ha problemi di salute mentale, ma i due terzi dei pazienti non ricevono cure adeguate: nel continente, infatti, esistono solo cinque psichiatri ogni 100mila abitanti, mentre secondo l’Oms ce ne vorrebbero almeno 20. “In realtà – si legge in un articolo sul tema pubblicato dall’Africa Policy Review – l'assenza di trattamento è la norma piuttosto che l'eccezione in Africa. Il ‘divario terapeutico’, definito come la proporzione di persone che vivono con una malattia mentale e che però non ricevono cure, varia dal 75% in Sud Africa, a oltre il 90% in Etiopia e in Nigeria”. Grégoire si è inserito in questo vuoto e, come Basaglia da noi 40 anni fa, anche lui ha iniziato la sua “rivoluzione”. Certo, lui è animato da uno spirito religioso più che medico, ma che comunque sta dando i suoi frutti, anche grazie all’attenzione di medici e specialisti da tutto il mondo che, affascinati dal suo “metodo”, si recano in visita ai suoi centri. La sfida però è ardua, e alcune catene sono difficili da spezzare del tutto. 

Lo sappiamo bene anche qui in Italia, nonostante Basaglia, e nonostante i tanti passi avanti fatti: la contenzione ne è un esempio. Come sottolineato dalla campagna “E tu slegalo subito”, si tratta infatti di una pratica ancora diffusa, in un numero rilevante di Dipartimenti di salute mentale, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, nelle residenze e case di cura accreditate. Niente ceppi e catene, ma si tratta comunque della pratica di legare la persona in cura per impedire, in maniera totale o parziale, i suoi movimenti volontari, attraverso l’utilizzo di mezzi meccanici quali lacci, fascette, cinghie, polsini, corpetti, bretelle, tavolini servitori. “Una pratica che è il terrore e l’incubo di uomini e donne, di vecchi e bambini, di tutti quelli che vivono la fragilità delle relazioni, il dolore della solitudine, l’isolamento, il peso insopportabile della loro esistenza – si legge nell’appello che ne chiede l’abolizione –. La contenzione non solo impaurisce, ferisce, umilia chi la subisce, ma anche gli operatori sanitari (medici, infermieri), che, non più soggetti portatori di competenze, affettività, relazioni, sono ridotti ad un ruolo di freddi custodi”. In molti dei luoghi della cura si lega ma si fa di tutto per non parlarne. “Salvo quando capita l’incidente”.

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

Ultime notizie

Mio fratello Ibrahim

20 Settembre 2025
Un pellegrinaggio sui campi da rugby italiani, con lo scopo di condividere e raccontare le capacità riabilitative, propedeutiche e inclusive della palla ovale. (Matthias Canapini) 

Il Punto - Si muore nel silenzio

19 Settembre 2025
I palestinesi sono soli, entriamo nel giorno 1.303 dall’invasione russa in Ucraina, e altrove, si muore nel silenzio dei media. (Raffaele Crocco)

La Sicilia ha sete

18 Settembre 2025
La Sicilia ha sete, e non da poco tempo. (Rita Cantalino)

L’inizio dell’offensiva terrestre israeliana e l’esodo di massa da Gaza City

17 Settembre 2025
Israele conferma che l’offensiva ha provocato un esodo senza precedenti. (Giacomo Cioni)

Dossier/ Materie prime critiche (4)

17 Settembre 2025
Oltre a quelli ambientali, l’estrazione di minerali critici comporta una serie di impatti diretti sulla vita di diversi gruppi vulnerabili. (Rita Cantalino)

Video

Serbia, arriva a Bruxelles la maratona di protesta di studenti per crollo alla stazione di Novi Sad