Rohingya: il fuoco sul ritorno negato

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La mappa in copertina è tratta da Reliefweb

Bangkok – Una  settimana di fuoco in  Bangladesh dove è già salito a oltre venti  il bilancio delle vittime di un’esplosione che martedì scorso ha fatto collassare un palazzo nell’area di Gulistan’s Siddikbazar nella capitale. Domenica scorsa invece, il fuoco ha praticamente distrutto uno dei 33 campi profughi di Cox Bazar dove, ormai da anni, vive poco meno di un milione di Roinghya, la popolazione musulmana del Myanmar che un pogrom senza precedenti ha cacciato in massa nel 2017, apice dell’espulsione forzata di una comunità che non aveva nemmeno visto riconoscersi il diritto di possedere un documento di identità.

Il fuoco purtroppo è una costante del Bangladesh: causati da un accumulo di gas nel primo caso e da una cucina da campo nel secondo, gli incendi dovuti alle precarie condizioni in cui si maneggiano gli infiammabili è spessissimo causa di tragedie anche nelle fabbriche. Nel caso dei Rohingya per fortuna, questa volta non si registrano vittime (come era invece accaduto in un incendio nel 2021), ma la facilità con cui il fuoco è avanzato spiega come vive, confinata in campi da cui non si può uscire e dove è vietato lavorare, una popolazione di cui si continua a raccontare di un impossibile ritorno a casa. In un Paese, il Myanmar, che non solo non li vuole ma dove infuria la guerra. C’è solo una flebile luce di speranza: le dichiarazioni ufficiali della resistenza birmana e del governo clandestino secondo cui il Myanmar liberato dal giogo militare imposto dal golpe del 2021 riconoscerà ai Rohingya sia lo statuto di birmani, accorpandoli alle 135 comunità previste dalla Costituzione, sia il loro diritto al ritorno. Ma intanto… Intanto parlano i numeri dell’incendio, citati in un documento dell’Inter Sector Coordination Group (vedi mappa a sn)  in cui lavorano governo, Onu e Ong: quasi 15mila persone colpite di cui oltre 5mila senza più una dimora (baracche di bambù e plastica ndr); oltre 3mila ricoveri e strutture devastati.

Mi tornano sempre in mente le parole lette anni fa in un articolo: Rohingya, la crisi dimenticata. E’ infatti una popolazione perseguitata che non trova giustizia”, racconta un’operatrice umanitaria che raggiungiamo al telefono a Cox Bazar. “Si parla spesso – aggiunge – di soluzioni a lungo termine, e in generale di rimpatrio in Myanmar. Ma questo può avvenire solo e solo se i Rohingya vengono riconosciuti come cittadini nel loro Paese di origine e possono quindi rientrare in modo sicuro, volontario e dignitoso. In mancanza di questa condizione imprescindibile le vessazioni continueranno. Forse, dopo sei anni – conclude – è il momento di ragionare su soluzioni alternative a livello internazionale. Facilitare il reinserimento in Paesi terzi o un programma solido di integrazione in Bangladesh”. Integrazione di cui però Dacca non vuol sentir parlare...

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