Rischio di un'ulteriore diffusione dell'Aids

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In esclusiva da News from Africa

Dopo le speranze suscitate dai negoziati tra il governo Sudanese e il gruppo ribelle SPLM/A, l'attesa pacificazione nell'infuocato Sud Sudan potrebbe provocare un'ulteriore diffusione del virus dell'HIV, da cui è già affetto il 2,6% della popolazione adulta della regione, secondo le stime contenute in un recente rapporto dell'Unfpa (United Nations Population Fund). Condividendo le preoccupazioni dell'Unfapa, il consigliere regionale dell'Unicef per l'Aids nell'Africa orientale e meridionale, David Alnwick, afferma: "In poche parole, il Sud Sudan è un disastro in attesa di scoppiare".
E aggiunge: "Finché non si farà qualcosa di significativo in questo senso, le cifre dell'HIV cresceranno considerevolmente". Secondo il Prof. Ali Biely, dell'Università di Ahsad ad Omdurman, vicino Khartoum, poco "è stato fatto in questa direzione, a causa dell'emergenza della crisi umanitaria e della necessità di curare coloro che, nell'immediato, stavano morendo di malattie curabili". "Il fatto che tanti sudanesi torneranno alle loro case da paesi con un alto tasso di HIV/AIDS, incrementerà la probabilità di un'ulteriore diffusione dell'epidemia", si legge in una delle ultime newsletter dell'UNFPA sul Sudan, in cui si riferisce anche che, mentre molti dei rimpatriati conoscono la malattia, l'accesso all'informazione e alla prevenzione è tutt'altro che universale.

Il capo dei programmi per l'HIV/AIDS dell'Ufficio dell'UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), Paul Spiegel, pur riconoscendo il rischio di un incremento dell'infezione nel Sud Sudan, raccomanda tuttavia di non azzardare affrettate conclusioni rispetto alla prevalenza del virus tra i rifugiati rientrati: "Se è vero che le popolazioni colpite dal conflitto e i rifugiati sono soggetti ad alto rischio di infezione - a causa della violenza sessuale e dello smantellamento dei servizi sanitari - questo non si traduce necessariamente in un più alto tasso di infezione, il quale di fatto è strettamente legato al contesto. I fattori determinanti includono l'incidenza dell'HIV nell'area di origine, il tasso di infezione nella popolazione presso cui si trovano i campi per i rifugiati e il tempo che i rifugiati stessi hanno trascorso nel campo".

Peraltro, secondo Spiegel, l'accresciuto rischio di infezione in tempo di conflitto può essere controbilanciato dalla riduzione della mobilità dei rifugiati stessi e dall'aumento del loro livello di conoscenza del virus, tramite appositi programmi all'interno degli stessi campi.

Il consigliere regionale per l'HIV/AIDS dell'ONG Save the Children, Rena Geibel, conferma questo quadro controverso rispetto al tasso di infezione tra le popolazioni coinvolte in un conflitto: "Nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, la violenza sessuale è così diffusa che nella regione si registra, attualmente, un tasso di infezione superiore a quello dell'intero paese". Al contrario, i conflitti cronici in Sierra Leone, Angola e nel Sud Sudan attualmente mantengono il tasso di HIV a livelli decisamente inferiori.

Nel campo di Kakuma, nel Kenya nordoccidentale, che ospita circa 60.000 rifugiati sudanesi e 20.000 rifugiati di altre nazionalità, uno studio dell'UNHCR ha rilevato che un tasso di infezione pari al 5% nel 2002, mentre nel vicino villaggio di Lodwar esso arrivava al 18%. Per quanto decisamente inferiore rispetto alla popolazione circostante, il tasso di HIV/AIDS tra i rifugiati di Kakuma sembra tuttavia leggermente superiore rispetto alla percentuale del 2,3% registrata presso le donne incinte nei villaggi di Rumbek e Key, nel Sud Sudan: un dato, quest'ultimo, che è emerso da un'indagine condotta nel 2003 dal Centro Statunitense per il Controllo e la Prevenzione della malattia.

Piuttosto che percepire il ritorno dei rifugiati sudanesi come un potenziale fattore di rischio per la diffusione dell'HIV nel Sud Sudan, sia Geibel che Spiegel preferiscono considerarlo come un'opportunità: "In assenza di un adeguato sistema di informazione e di efficienti servizi sanitari nella regione, il rientro dei rifugiati - che sono stati informati dei rischi dell'HIV e in alcuni casi perfino formati come personale medico o infermieristico - potrebbe infatti aiutare a ridurre la diffusione del virus", afferma Geibel. Il responsabile del progetto per il Sud Sudan di Save the Children-UK, Patience Alidri, conferma l'alto livello di consapevolezza di molti rifugiati rimpatriati circa il virus dell'HIV, ma è più scettica rispetto agli effetti di questo: "Una maggiore consapevolezza non necessariamente conduce a trasformazioni nella condotta reale. I comportamenti non cambiano dal giorno alla notte".

Il conflitto in Sudan ha allontanato dalla propria casa milioni di persone, mentre centinaia di migliaia di sudanesi hanno lasciato il proprio paese. Nella regione meridionale, la guerra tra il governo centrale e il Sudanese People's Liberation Movement/Army (SPLM/A), che dura ormai da oltre 20 anni, ha prodotto circa 4 milioni di sfollati interni, e più di 500.000 rifugiati, che hanno attraversato i confini nazionali. Secondo l'UNHCR, la gran parte di rifugiati sudanesi vive in Uganda, Etiopia e Kenya. Il conflitto nella regione occidentale del Darfur, tra l'esercito sudanese - supportato dalle milizie Janjawid - e i ribelli che combattono per porre fine alla presunta emarginazione e discriminazione degli abitanti del Darfur, ha provocato quasi un milione e mezzo di sfollati, mentre altri 200.000 sudanesi hanno cercato rifugio in Chad.

Alla metà di ottobre, il Ministro della Salute sudanese ha annunciato che i peacekeepers dell'Unione Africana (AU), che stavano per entrare nel paese, allo scopo di monitorare il cessate il fuoco in Darfur, sarebbero stati sottoposti a controlli per l'HIV. Secondo il Sudanese Media Centre, il Ministro della Salute Ahmed Bilal Osman avrebbe chiesto a ciascun membro del contingente di produrre un certificato, per dimostrare di non essere HIV-positivo. Osman precisava che tale misura era puramente precauzionale e finalizzata a "salvaguardare la salute della popolazione del Darfur". (Traduzione di Chiara Ludovisi)

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