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Queer ecology, e cioè?
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Foto: Alexander Grey da Pexels.com
Negli ultimi decenni il tradizionale movimento ambientalista è stato criticato per la sua impostazione preconfezionata e binaria: il selvaggio contro il domestico, l’umano contro la natura… sono forse le principali e più immediate opposizioni che vengono in mente tra quelle che stanno alla base di molte delle battaglie per la conservazione. Coloro che però si occupano di indagare le interazioni tra gli umani e tutto ciò che è outdoor rilevano come questo approccio crei difficoltà allo sviluppo di sentimenti e azioni di cura verso qualsiasi essere vivente, umano o non umano, che non sia così facilmente categorizzabile. Per esempio? Animali selvatici che frequentano aree urbane, comunità indigene che vivono in stretta relazione con la natura, persone non binarie che non si identificano né come maschi né come femmine.
Per migliorare le potenzialità della cura per qualsiasi forma di vita i movimenti ambientalisti potrebbero dover ripensare al mondo naturale in modo alquanto diverso. O, come alcuni suggeriscono, dovrebbero rendere il loro approccio più queer. Le ecologie queer, infatti, hanno l’obiettivo di rompere le prospettive binarie e cambiare il modo in cui gli uomini si relazionano con l’ambiente naturale. Questo punto di vista, esplorato per la prima volta nel 1994 dalla prof.ssa di Studi Ambientali Cate Sandilands, introduce una metodologia chiamata queering (che almeno in parte significa “rendere qualcosa diverso o strano”) per interrogare gli assunti che sottendono ai concetti di “selvaggio” o “naturale”. Gli ecologisti queer si impegnano per uno sguardo sul mondo per il quale esseri umani e non umani siano meno divisi e più connessi e interdipendenti. Convinti, come espresso dalla prof.ssa di Scienze umane ambientali dell’Università della California Nicole Seymour, che “il modo in cui pensiamo al genere e alla sessualità condiziona direttamente il nostro modo di pensare l’ambiente”.
Il mondo naturale non risponde comunque a logiche binarie. Esistono miriadi di esemplari di animali queer, da quelli omosessuali a quelli che cambiano sesso durante l’arco della loro vita a quelli asessuati. Per dirla in pochissime, definitive parole: l’eterosessualità è ben lontana dall’essere la sola e più naturale forma dell’esistere.
Studi ambientalisti che tengano in considerazione punti di vista molto più aperti e possibilisti sono fondamentali per validare strade di vita anche molto diverse tra loro e, allo stesso tempo, per dimostrare quanto la Terra abbia un’estrema capacità di contenere diversità in dialogo, che offrono una comprensione molto più piena e ricca delle dinamiche naturali.
Alcuni sostengono anche che un approccio binario alle questioni climatiche abbia implicazioni non irrilevanti: simboli della mascolinità legati alla forza e al dominio della natura diventano scusanti per trascurare scelte più sostenibili e rispettose dell’ambiente (si pensi per esempio all’ossessione non solo americana per veicoli sempre più grandi e dispendiosi). Ma rendere più queer la nostra relazione con la natura può significare anche esplorare forme di relazione diverse, che possono avere un minor impatto ambientale: un esempio pratico può essere “una casa per una sola famiglia”, standard abitativo che spreca inutilmente molte più risorse del necessario; un altro esempio può essere quello dei parchi, che non sono spazi neutrali, bensì luoghi pensati per promuovere determinati comportamenti come le attività ricreative, eliminando completamente quelle tradizioni tipiche dei popoli indigeni, come la raccolta di sussistenza negli spazi pubblici. E la queer ecology ha parecchio da dire anche rispetto alla supremazia dell’uomo sulle altre specie, con l’obiettivo di interrompere il flusso di un pensiero scientifico e di conservazione che resta troppo spesso antropocentrico, soprattutto negli spazi urbani dove le politiche ambientaliste intersecano quelle della convivenza e del rispetto reciproco (uno studio interessante sul tema del ripensamento di un’ecologia più intima si può leggere qui). Il pensiero è sovvertito: significa ripensare le città, ma anche il Pianeta più in generale, non come luoghi nei quali evitare multiple interazioni, ma come luoghi che possano essere case migliori e più accoglienti insieme per gli uomini e per la vita selvatica.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.