Quando il dramma deve far riflettere

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Questa volta l'informazione ha dato il peso che meritava a una tragedia, l'ennesima, che ha colpito i poveri della terra. Forse però il motivo è che in questo caso, come purtroppo accade sempre più spesso, la tragedia ha colpito anche centinaia di turisti occidentali che all'improvviso si sono trovati a condividere lo stesso destino dei derelitti dell'India, dello Sri Lanka, della Tailandia. C'è qualcosa in questo dramma però che non va, che fa serpeggiare il dubbio che le cose potevano andare diversamente. Ad esempio, bastava che i paesi colpiti dal maremoto avessero avuto un sistema di allarme rapido ed efficace, come quelli esistenti in diversi paesi che si affacciano sul Pacifico (come il Giappone e le Hawaii), del costo di 200.000 dollari, per diminuire drasticamente le conseguenze del disastro naturale.

Duecentomila miseri dollari che avrebbero permesso a migliaia di persone di scappare in tempo verso l'interno prima dell'arrivo dell'onda assassina. Certamente stiamo parlando di paesi poveri e poverissimi, che non hanno risorse per la prevenzione, ma una tra le tante domande inquietanti che si pongono in queste ore è perché i tour operator presenti in questa vasta zona non abbiano loro stessi provveduto a finanziare tale moderna ma semplice tecnologia che avrebbe permesso di mettere al sicuro i loro clienti. Ecco una delle contraddizioni di un turismo di massa, costruito per potere ricavare il massimo di profitto riducendo al minimo i benefici economici che si lasciano nei paesi ospitanti. Un turismo che sfrutta le splendide risorse naturali senza curarsi di tutelarle e che non di rado dimentica che molti di questi "paradisi" si trovano in zone esposte ad alti rischi naturali dove si opera senza nessuna rete di prevenzione dei disastri.

Un modo di viaggiare già aspramente criticato da Papa Giovanni Paolo II due anni fa: i viaggi all inclusive, dove si mangia e si beve fino a scoppiare, si fanno docce in continuazione senza pensare alla penuria idrica, si producono rifiuti senza preoccuparsi dove verranno scaricati, non vi sono ricadute positive sulla comunità locali, un turismo che non crea insomma sviluppo economico per tutta la società, è un turismo che non si pone le domande che avrebbe il dovere di porsi, ma contribuisce a consolidare una cultura del consumismo e dello spreco.

A vedere le code di questi giorni negli aeroporti di Malpensa e Fiumicino di viaggiatori in partenza per le località colpite dal maremoto, che non si rassegnano a dover rinunciare al loro sospirato e "meritato" viaggio, vengono seri dubbi sull'integrità della nostra società. Qual è la convinzione che li spinge a voler andare a tutti i costi? Ritengono che il loro diritto al riposo e al divertimento prevalga anche laddove ancora si stanno contando i morti e i paesi sono in ginocchio con ben altre priorità che quelle di servirli? Il Ministero degli Esteri non dovrebbe limitarsi a "sconsigliare" le partenze, ma vietarle e basta. I voli disponibili per i paesi colpiti servono ora per portare aiuti, rimpatriare feriti, permettere che gli immigrati asiatici in Italia possano raggiungere i loro cari. L'industria turistica deve fare una seria riflessione sulla natura stessa del loro business. Non basta dire che ci si augura che tornino presto i turisti nei paesi colpiti dal maremoto perché c'è da rimettere in piede la loro economia. Bisogna che si interroghino sulle ragioni di fondo che impediscono che il turismo porti sviluppo in quei paesi, prima che viaggiare diventi definitivamente una corsa ad ostacoli dove la posta in gioco è la vita. Per il bene delle popolazioni dei paradisi turistici del Sud del mondo e anche per il bene di noi stessi.

di Alfredo Somoza - Associazione Italiana Turismo responsabile

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