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Produrre carne
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Foto: Kyle Mackie da Unsplash.com
Le vacche “da latte” sono destinate a vivere di solito 5 anni, prima di venire abbattute. Se non venissero sottoposte alle “superiori” necessità della produzione, arriverebbero a viverne bene fino a 20. Le industrie di sfruttamento dei non-umani, non parlano più da tempo soltanto di riproduzione bensì di produzione dell’animale. Un animale che, per essere consumato, non deve essere considerato “vero” – come dice alla mamma, con illuminante semplicità, il bambino Luiz nel video che mostriamo qui sotto – altrimenti quando lo mangiamo morirebbe. È così che si innesca il concetto di reificazione che ci induce a ridurre la vita di soggetti diversi da “noi” a oggetti inerti e poi a merci. In questo nuovo articolo, Annamaria Rivera parte dalla riduzione degli animali a cose per sviluppare, con il consueto rigore e da diverse prospettive, la ben nota critica alla negazione dell’altro-da-sé legata al dominio sulla natura, per dirla con Adorno, e alla mercificazione di massa che segna in profondità gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati propri delle società industriali-capitalistiche. Se le ragioni della propensione a cibarsi di «carne» vanno ricercate soprattutto sul versante del mercato e degli interessi dell’industria zootecnica, aggiunge però Annamaria, non va trascurata l’importanza della ragione simbolica. Fino a quando ci saranno macelli, avremo anche campi di battaglia, pare dicesse Tolstoj, che considerava l’associazione tra carne e guerra un inesorabile automatismo della storia.
Se per affrontare, sia pur sinteticamente, un tema come quello che propongo, penso convenga esordire con il concetto di reificazione. In estrema sintesi, si può dire che essa è una postura, una disposizione, una pratica sociale routinaria che induce a trattare soggetti diversi dal noi non già in modo conforme alle loro qualità di esseri sensibili, ma come oggetti inerti o perfino come cose o merci.
Un’altra linea di pensiero che ho cercato di rendere operante è quella che banalmente potrebbe definirsi animalista: è, in realtà, una riflessione sulla continuità dei processi di dominazione e di reificazione. La dialettica negativa proposta da Theodor W. Adorno, secondo il quale il sé dell’umano si produce per mezzo dell’attiva negazione dell’altro-da-sé, legata al dominio sulla natura, non riguarda solo il rapporto uomini/donne e noi/altri, ma anche quello umani/animali.
Nel caso degli animali la mercificazione è davvero totale, al punto che le industrie di sfruttamento dei non-umani, “non parlano più soltanto di riproduzione bensì di produzione dell’animale: come se gli animali fossero solo materiale corporeo che è compito del lavoro umano formare, strumentalizzare e riprodurre”, nonché uccidere (Melanie Bujok, 2008, Materialità corporea, ‘materiale-corpo’. Pensieri sull’appropriazione del corpo di animali e donne).
Se abschlachten («macellare») era il verbo usato dagli esecutori nazisti per nominare il massacro dei prigionieri nei lager, programmato e attuato secondo una rigorosa logica industriale, oggi allevare, torturare e macellare animali si dice «produrre della carne»
Per sovvertire questo modello occorre anzitutto mostrarne la parzialità: per quanto si sia diffuso in aree disparate, esso è nato da una piccola frazione di pensiero filosofico -l’occidentale-moderno- che tende a pensare secondo polarità contrapposte il rapporto fra natura e cultura, che separa, culturalmente e moralmente, gli umani dai non-umani, che istituisce una frattura insanabile fra soggetti umani e oggetti animali, negando a questi ultimi la qualità di soggetti, per l’appunto, dotati di sensibilità, biografie, mondi, culture, storie...