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Prendersi del tempo non è tempo perso
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Foto: F. Bottari ®
Oggi è la Giornata Mondiale della Conservazione della Natura e, oltre all’importanza della natura per la nostra sopravvivenza - si sa - essa è fondamentale anche per capire chi siamo e come funzioniamo, soprattutto in questi anni, nel tramonto che stiamo assistendo, quello di un’epoca i cui punti di riferimento sono stati blocchi di ferro e inni alla velocità.
Hermann Hesse ha espresso in modo cristallino quanto, per migliorare se stesso, l’uomo moderno sia chiamato anche ad oziare perché, in un tempo vuoto e pieno di niente, si può trovare un fiore, si coltivano radici, interiori, si sentono scorrere fiumi e ci si accorge anche del battito cardiaco di un gruppo di stelle. E per riuscire a naufragare in un dolce far niente, che può essere guardare le nuvole che si muovono nel cielo così come accorgersi del colore di una panchina andando a piedi a fare la spesa, occorre esercitare il proprio sguardo a essere più lento o, come diceva Hermann Hesse, più profondo. Bisogna, in parole rivoluzionarie, disobbedire alla volontà futurista e novecentesca che ha imposto la conquista del “tutto e subito”, mettersi in pausa quando serve e ambire anche a una passeggiata per il gusto di cogliere qualche genziana.
Hermann Hesse ne parlava apertamente già a inizio Novecento nel suo libro "Il piacere dell’ozio" il quale, oltre a essere un breve scritto pieno di pensiero e visione, è un invito a prendersi del tempo senza paura che questo tempo sia, appunto, tempo perso.
La sua è un’esortazione a ribellarsi a un "ideale di vita frenetica che mozza il respiro” e questo suo canto di speranza si è intonato anche grazie al suo interesse per le culture orientali: lo scrittore, che spesso si sedeva in mezzo al mondo per bere da entrambi gli emisferi, si è chiesto il motivo per il quale in Oriente le persone avevano più tempo. Infatti, leggendo i racconti scritti da persone di cultura orientale si ha l’impressione che "quella gente ha tempo", molto più tempo di noi. “Sono milionari”, scrive Hesse, “per quanto riguarda il tempo”: sono ricchi di tempo perché non si preoccupano di perdere “un’ora, un giorno, una settimana”.
Per capire meglio, uno scrittore orientale prima di farti arrivare nella piazza centrale di un racconto, ti fa sedere su una panchina. Prima di far sorridere un uomo, lo scrittore orientale, ne descrive la punta del naso, il colore delle labbra, conta il numero dei denti; e dei capelli invece ti fa sentire l’odore. Ne immagina l’abito, il profumo del collo, la profondità del suo sguardo. Ne conserva, appunto, la natura.
Il filosofo tedesco, come egli stesso scrive, “non intende dare consigli all’attività della nostra industria e della nostra scienza che divorano l’individuo” perché, come si legge ancora nel suo libro, “se l’industria e la scienza non hanno più bisogno di individui, è bene che non ne abbiano.” Poi spiega, “ma noi artisti” (per artisti egli intende tutti “coloro che sentono la necessità e il dovere di sentirsi vivi e in continua crescita”) “che in mezzo alla grande bancarotta della civiltà, abitiamo in un’isola in cui le condizioni di vita sono ancora sopportabili, dobbiamo seguire, ora come in passato, leggi diverse.” Questa fetta di persone deve reimparare a relazionarsi con il tempo, deve, per dirla sempre alla Hesse, sviluppare una sorta di “igiene artistica” ripulendo il proprio spazio interiore dalla “sovrabbondanza di ispirazione”. E come? Con “delle pause di ozio che”, come narra l’autore, “viste da un occhio esterno, suscitano da sempre disprezzo”.
Il padre di Siddharta spiega l’importanza umana di “queste pause”. Ci sveglia, ci sprona a trovare il tempo necessario per far “maturare il proprio lavoro inconscio”, ovvero ad acquisire uno sguardo più lento, uno stato di quiete a cui ci si avvicina più facilmente davanti a qualche rondine che vola sopra un filare di meleti e non dietro a un’infinità di appuntamenti.
C’è poco da fare, bisogna sintonizzarsi di nuovo con le frequenze della natura e riuscire, di conseguenza, a stare bene anche in uno spazio dedicato all’amor proprio. A non fuggire dalla calma, dalla lentezza. È un incitamento, quello di Hesse, a liberarsi dalla smania di dare sempre e subito delle forme tangibili alla forma invisibile. È, per dirla come la scrisse Milan Kundera, essere in grado di passare “dalla stupidità che vuole una risposta per ogni cosa, alla saggezza che deriva dall’avere, per ogni cosa, una domanda”.
L’ozio serve, avviandoci verso la fine, a distanziarci da quello che stiamo creando per capire se quello che stiamo facendo nella vita ci rappresenta davvero. Serve a preservarci: a conservare intatta la nostra indole più intima, quella felicità innata che la vita ci consegna alla nascita, e riuscire così ad attingere da essa per trasformarla, giorno dopo giorno, in creazioni, siano esse opere d’arte, forme di formaggio o tavoli di legno. Non è facile, ma Hesse ci consola, spiegandoci con delicatezza e filosofia, che ci sarà sempre una pozione di gente che “non riesce a comprendere quale immenso e grande lavoro può essere impiegato in una sola ora di attività creativa”, ma affinché quest’ora possa partorire vita, e preservare dunque la natura, è necessario prima essere capaci di una passeggiata senza meta o di un tramonto guardato fino in fondo.
Francesca Bottari

Sono nata a Cles il 15 settembre 1984. Dopo essermi laureata in Lingue e Culture dell’Asia Orientale a Venezia, ho vissuto in Cina e in altre nazioni. In passato mi sono occupata di giornalismo e di inchieste. Oggi vivo a Bassano del Grappa, dove ogni giorno mi alleno a vivere scrivendo poesia: francescabottari.it