Posizione della segreteria nazionale della CGIL

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Il giorno dopo la grandissima manifestazione del 20 marzo, sono ancora più evidenti le sue ragioni: ciò che continua ad accadere nel martoriato territorio di Israele-Palestina, ciò che non si ferma in Iraq, ciò che ritorna ad accadere in Kosovo, in Afghanistan.

I milioni di persone che hanno manifestato sabato, a Roma e in tutto il mondo, non si rassegnano a che la guerra e la violenza siano l'elemento distintivo di questa fase storica, il nuovo carattere geopolitico che la contraddistingue e che permea di sè i rapporti sociali, oltre che quelli politici. Non è l'emotività che li spinge, ma un comune sentire che riesce a mettere insieme, come nessun altro, tantissimi ragazze e ragazzi, organizzazioni, persone tra loro diverse: quel comune sentire, quel movimento, è il mattone su cui e grazie al quale costruire un nuovo spazio pubblico globale.

La CGIL non si rassegna: nell'alternativa tra nuova possibile democrazia mondiale inclusiva e nuovo dominio armato del mondo, scegliamo con nettezza la pace, il rifiuto della violenza, del terrorismo, l'estensione dei diritti in luogo della loro illusoria protezione dentro cittadelle difese da dazi figli di politiche inique, protezionistiche e miopi.

Ma se così è, ed è così, occorre confermare i valori fondamentali che possono tenere insieme un movimento così eterogeneo e occorre chiarire anche gli obiettivi cui tendere, e le forme e le scelte per raggiungerli.

Per la CGIL il discrimine è netto, conosciuto, ma è utile ribadirlo oggi, dopo che quella grande manifestazione è stata segnata da incidenti inqualificabili e in contrasto con il carattere stesso del popolo della pace.

Il rifiuto della violenza, oltre che della guerra e del terrorismo, qualificano una idea di democrazia, parlano della sua qualità, si propongono come manifesto fondante dell'alternativa possibile al dominio delle armi, delle bombe e delle autobombe.

Abbiamo già detto più volte che la pace è un processo inclusivo e non ad escludendum; il rifiuto della violenza, del terrorismo, della guerra, la condizione necessaria per costruire la pace come obiettivo concreto.

Nessuno può pensare in buona fede che le politiche per la pace e per i diritti possano fare a meno di coerenza tra parole e fatti e di una relazione tra forze politiche progressiste, sindacato e movimento.

La CGIL continua a pensarlo e per queste ragioni ritiene indispensabile che dentro il "Comitato fermiamo la guerra" su tali discrimini ci si chiarisca subito: è in gioco la sopravvivenza stessa dell'efficacia del movimento e della sua capacità inclusiva. Quella così evidente il 20 marzo, ma nel contempo quella indebolita dagli incidenti che l'hanno segnato.

Poi non c'è dubbio che esista un interesse profondo nel descrivere - come la maggioranza dei media hanno fatto - la manifestazione del 20 marzo come una manifestazione totalmente diversa da quella che abbiamo vissuto: grandissima, pacifica e di popolo.

Ma le diverse strumentalizzazioni, comprese quelle che attengono alle dinamiche tra i partiti, non sono in ogni caso sufficienti a risolvere gli interrogativi sul perché e a chi giovi che una pratica politica pacifista debba sopportare di essere segnata ed esposta essa stessa alla violenza: perché l'atto di pochi contro i militanti DS è stato un atto contro il popolo della pace.

Non solo perché effettivamente una parte di esso è stato oggetto di lanci e insulti; soprattutto perché quella logica è estranea alle scelte del popolo della pace che sabato collettivamente ha subito una grave lesione.

La CGIL era in piazza il 20 marzo con le parole d'ordine di sempre: no alla guerra, no al terrorismo, no alla violenza, immediato ritiro delle truppe dall'Iraq, immediato ingresso dell'ONU. La CGIL continuerà ad esserci chiarendo ora per allora che siamo una forza tranquilla e non un servizio d'ordine; ci sarà nella discussione da fare.

Fonte: Rassegna

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