Porti fiori al cane?

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Non è un bel periodo. Brutte notizie, fatica a ricomporre il senso di strade che si imboccano in una direzione e poi, inaspettatamente e imprevedibilmente, ti conducono in un’altra che non vuoi, che non hai scelto, che forse un giorno dirai che è quella giusta, ma adesso proprio non sembra. In periodi come questi ci sono persone che incontri e con cui ti racconti, e scopri che più spesso di quanto tu possa immaginare c’è un filo che unisce, e rende forti e fragili insieme. Nelle ultime settimane uno di questi fili è stata la silenziosa presenza, accanto ad anime che soffrono, di un animale, per lo più domestico, ma non necessariamente. Una presenza costante, disinteressata, limpida, che àncora ai propri istinti primordiali: mangiare, amare, soddisfare bisogni elementari per sentirsi vivi e appagati, fare branco per proteggersi, esplorare, lottare con tutte le proprie forze per resistere.

Dall’inizio degli anni ’60 questa vicinanza curativa ci siamo abituati a chiamarla pet therapy, termine coniato dallo psichiatra americano Boris Levinson. Ci siamo convinti che potevamo credere nelle sue potenzialità dopo aver visto che questa pratica, in supporto ad altre che potremmo chiamare “tradizionali”, regala giovamento grazie agli effetti positivi che la presenza di un animale innesca. Prima di tutto perché si instaura una relazione, quella parola che racchiude assieme abitudine, investimento di sentimenti e tempo, rispetto, sinergie inedite che spaventano eppure attraggono. Fiducia. Perché l’animale non giudica e non rifiuta la diversità che rende insicuri, compresa quella del dolore, generalmente zittito da un mondo che tira dritto e che ha sempre un termine di paragone vicino al quale leggerci, per eccesso o per difetto. Sono sensazioni che penso molti di noi abbiano sperimentato, e se proviamo a ricordare quanto fiato nei polmoni insuffla l’assenza di un approccio giudicante verso il nostro (mal)essere, qualunque connotazione abbia, ci rendiamo conto che la compagnia di un animale non solo rallenta la tachicardia e acquieta ansie e inquietudini, ma ci regala in silenzio una possibilità, che è poi la stessa che ci dà un amore sincero quando scegliamo di accoglierlo: scoprirci persone migliori di quanto pensavamo di poter essere, e non averne paura. Abbandoniamo le parole, e ci lasciamo andare al senso di quello che sentiamo nel contatto fisico con l’animale, un contatto che non può verificarsi altrimenti e che ci riattiva la memoria su quanto siano importanti i gesti oltre ai discorsi, la lentezza, la delicatezza, la dolcezza. Impariamo a prenderci cura di noi stessi e di chi è diverso da noi.

Frequentando ultimamente un rifugio con annessa la fattoria in trasferta di un amico educatore cinofilo, mi sono presa un po’ di tempo in più per una riflessione che mi gira spesso intorno e che delimita il territorio del rapporto tra uomo e animale, argomento caro a Unimondo e ai redattori che se ne occupano. Come di frequente accade, è molto più facile porsi domande che trovarne poi risposta, ma di fatto l’interrogativo è elemento imprescindibile per un pensiero in evoluzione. Vedendo avventori e camminatori di passaggio, spesso accompagnati da amici a quattro zampe, e incontrando padroni che si cimentano con le sfide più varie nelle lezioni con il proprio cane, è palese quanto la vita sia fertile di contraddizioni e stranezze. Perché quelle persone sono le stesse che accarezzano con compassionevole tenerezza le pecore, le capre, l’asina e la cavalla della fattoria, alcune persino concedendo qualche pacca solidale alla schiena del maiale… salvo poi sedersi al tavolo e ordinare piatti (leccornie, ne ho la certezza conoscendo lo chef) a base di carne.

Ora, ho sempre pensato che in ogni scelta che riguarda una sfera tanto delicata e personale come il cibo sia bene sospendere il giudizio, considerata la molteplicità di fattori che incide sulle posizioni alimentari di ognuno, dalla cultura, alle abitudini, alle convinzioni sanitarie, anche se a volte risultano molto spiacevoli per la propria sensibilità. Però un dubbio mi resta, ed è questo: perché da questo lato del mondo dilaga l’indignazione per chi si ciba per esempio di cani, quando mucche, cavalli, cervi – e l’elenco potrebbe continuare con molti altri fratelli di terra e d’acqua – sono invece imbanditi sulle nostre tavole come prelibatezze ammesse, dalla tradizione o dai menù gourmet? E’ un aspetto che con la logica si fatica a comprendere perché non si capisce quale sia il discrimine, se non la debole motivazione di una cultura (di secoli, certo, ma non universale) che considera lecite, qui, pratiche che altrove non lo sono, e viceversa. Rispetto a categorizzazioni sommarie, quindi, mi verrebbe da dire che è forse preferibile la coerenza del carnivoro che sperimenta un ampio spettro di assaggi e di possibilità senza porsi limiti emotivi, o all’opposto la coerenza del vegetariano autentico che rinuncia a qualsiasi alimento “che abbia avuto dei genitori” (Foer), rispetto a quella via di mezzo che si assesta su massime generiche tipo “alcuni sì e alcuni no” per ragioni principalmente arbitrarie, personali e sentimentali.

C’è un festival, nel letto della cultura indù, che si chiama Tihar e che ha luogo in autunno. Il secondo giorno, Kukur, all’interno di un più ampio periodo di festività (Diwali) dedicate alle luci, è l’occasione per celebrare proprio i cani, adornandoli di fiori come segno di affetto e come ringraziamento per la loro amicizia. Mi ha fatto pensare il successo che questa festa ha riscosso anche alle nostre latitudini, cadendo a pennello in contrapposizione alle barbarie perpetrate controverso festival a base di carne di cane di Yulin di cui abbiamo avuto notizia dalla Cina. Al di là che quella di Kukur sia una giornata intensa ed emozionante per chi nutre sentimenti di vicinanza profonda con le creature che condividono con noi lo spazio di casa e giardino, forse sarebbe opportuno fermarsi un momento, guardarsi dentro e decidere se non sia il caso di togliere del tutto le ghirlande ai cani o di intrecciarle invece  finalmente intorno a tutti gli animali che meritano il nostro rispetto e la nostra gratitudine. E potremmo farlo ricordandoci il monito che ci ha lasciato da secoli il poeta latino Ovidio: “La crudeltà verso gli animali è tirocinio della crudeltà contro gli uomini.” Perché se, come disse Mark Twain, “l’uomo è l’unico animale che arrossisce, ma è l’unico ad averne bisogno”, forse potremmo impegnarci un po’ di più per non dover provare vergogna davanti ai trattamenti disumani subiti da creature che come noi hanno diritto a godere della loro parte di mondo.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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