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Papa Africa in Kenya: una sfida per il potere costituito
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La sfida del viaggio di Francesco in Africa è immensa perché le parole del papa intercettano politiche e pratiche non sempre ortodosse, costruite su reti clientelari, corruzione e abusi di potere che caratterizzano i governi locali, ma anche le relazioni con quelli sopralocali.
Cinque giorni. Andata e ritorno. Atterraggio in tre città del continente africano. Nell’ordine Nairobi (Kenya), Entebbe (Uganda) e infine Bangui (Repubblica Centrafricana). Il papa, quindi, non va in visita a un Paese, come molti hanno scritto in questi giorni. A chi pensa che l’Africa sia un Paese (anche con la lettera maiuscola), metteremo sotto gli occhi un carta, che seppur arbitrariamente disegnata, rappresenta se non altro la complessità e le contraddizioni di un continente vasto e diversificato che conterrebbe cento Italie. Il “continente dello scarto” e degli scartati, eppure ancora la terra sulla quale lo scrumble of Africa, cioè la spartizione di ottocentesca memoria, continua a lasciare oggi le sue tracce e a mietere vittime. Il papa lì è voluto andare, per provare a camminare lungo linee che potrebbero diventare luoghi d’incontro e non di separazione.
Il programma del viaggio apostolico è intenso e complesso, da leggersi altamente aleatorio. In particolare, è il soggiorno a Bangui che preoccupa di più, il “Paese che è una strage continua” – così lo ha definito Famiglia Cristiana. I rischi ci sono. Il papa ne è consapevole e declina ogni tipo di invito a rinunciare ad un viaggio epocale, soprattutto in questo momento storico.
In fin dei conti, il viaggio, ma anche un qualsiasi spostamento, include pur sempre dei rischi che non sono solo quelli di incorrere in imprevisti fatali o poco graditi. C’è anche il rischio di contaminarsi, di incontrare l’Altro così profondamente da uscirne trasformati perché l’alterità si disvela solo nell’incontro, occasione che si manifesta solo mettendosi in strada, percorrendo vie non convenzionali, dimenticate, ai margini. È ciò che il papa sta cercando, proprio questo rischio di contaminazione: l’incontro tra cristiani e musulmani è uno dei sui obiettivi, forse il principale, nella consapevolezza, che abbiamo anche noi, che musulmani fa rima con cristiani, non certo con terroristi. Perché dietro quelle che spesso vengono definite divisioni o conflitti di matrice religiosa, non si cela altro che una triste storia di sopraffazione economica e politica delle potenze occidentali sulla vastità e strategicità delle risorse africane in nome dello sviluppo.
In Kenya, le ferite di Garissa sono ancora aperte, anche lì si è pensato ad una sfida alla cristianità lanciata dal movimento Al Shabab. Westagate a Nairobi ha riaperto qualche mese fa dopo due anni dalla strage. Ma forse le ferite sono più profonde e le radici di queste violenze sono da cercarsi nel colonialismo, nella costruzione dei confini di quel pezzo d’Africa. La Farnesina, infatti, scrive che il Kenya è un paese dove c’è una “perdurante minaccia terroristica” data dall’attivismo di formazioni terroristiche suscettibili di porre seri rischi alla sicurezza”, in particolare nelle aree attorno a Ijara, Garsen, Garissa, Wajir e Mandera. Ma è chiaro che dovrebbe risuonare a caratteri cubitali che il terrorismo al grido di “Allah Akbar”, non ha nulla a che vedere con l’Islam.
Su un’altra strada si sta incamminando il Papa, quella del perdono e dell’incontro. Se la “violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione”, allora si fa urgente non tanto alzare le barriere in nome della sicurezza, ma costruire spazi aperti per incrociare gli sguardi, mescolare le voci, conoscersi.
Il Papa a Nairobi parla ai giovani, certo, perché il Kenya ha una piramide delle età invertita rispetto alla nostra: l’età media della popolazione è 19 anni (in Italia è 44). È dai giovani che si riparte per costruire il futuro. Sembra scontato, ma non lo è quando nasci in quartieri come Kangemi o Dagoretti o in contesti abitativi spontanei e sovraffollati come Kibera, Mitumba, Mathare o Korogocho.
Simbolo di questa “sospensione” di futuro sono i bambini che vivono e dormono in strada o che, pur non vivendoci, fanno della strada il luogo della loro sopravvivenza. Vite sospese: senza il diritto di mangiare, di andare a scuola, di curarsi, con il solo diritto di poter sperare domani di esserci ancora. Forse. Sono loro il simbolo del Kenya di domani che Uhuru Kenyatta vorrebbe nascondere all’ombra dei grattaceli e delle superstrade sopraelevate di cui dà sfoggio la capitale. Contraddizioni. Ma il papa ha insistito di fronte al Presidente: “la gioventù è la risorsa più preziosa di ogni Paese. Proteggere i giovani, investire su di essi e offrire loro una mano è il modo migliore per poter assicurare un futuro degno della saggezza e dei valori spirituali cari ai loro anziani, valori che sono il cuore e l’anima di un popolo”. Giovani significa tutti i giovani.
Chissà se Kenyatta figlio avrà orecchie per intendere quando il papa gli ha suggerito come comportarsi nei confronti dell’abbondanza di risorse naturali per promuovere modelli responsabili di sviluppo economico. Chissà se ha colto nella frase “in un mondo che continua a sfruttare piuttosto che proteggere la casa comune” un monito diretto nei confronti dei “suoi grandi sogni” e delle sue operazioni di rivoluzione (non sempre così verde).
Chissà se il papa aveva in mente gli scempi ambientali che il governo in carica (senza andare troppo lontano nel tempo) sta compiendo su terre abbondanti e fertili, montagne, foreste e savane attraversate da preziosi corsi d’acqua, “regalando” concessioni per un uso praticamente gratuito di queste risorse alle multinazionali del legno, dell’agro-alimentare, dell’energetico, ecc.
Chissà se è stato recepito che l’invito a “mostrare una genuina preoccupazione per i bisogni dei poveri, per le aspirazioni dei giovani e per una giusta distribuzione delle risorse umane e naturali” era rivolto a chi il Paese dovrebbe governalo come un bene comune e non come una proprietà privata. Stiamo a vedere quali altre lezioni riserverà alla vicina Uganda e alla più lontana Repubblica Centrafricana.
Sara Bin

(1976) vive in provincia di Treviso e lavora a Padova. É dottore di ricerca in geografia umana; ricercatrice e formatrice presso Fondazione Fontana onlus dove si occupa di progetti di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale; è docente a contratto di geografia politica ed economica; ha insegnato geografia culturale, geografia sociale e didattica della geografia. Collabora con l’Università degli Studi di Padova nell'ambito di progetti di educazione al paesaggio e di formazione degli insegnanti. Ha coordinato lo sviluppo e l'implementazione dell'Atlante on-line in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, del'Università e della Ricerca. Dal 2014 fa parte del gruppo di redattori e redattrici di Unimondo. Ha svolto attività didattica e formativa in varie sedi universitarie, scolastiche ed educative ed attività di consulenza nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Tra i suoi principali ambiti di ricerca e di interesse vi sono le migrazioni, la cittadinanza globale, i progetti di sviluppo nell’Africa sub-sahariana, lo sviluppo locale e la sovranità alimentare. Ha svolto numerose missioni di ricerca e studio in Africa, in particolare in Burkina Faso, Senegal, Mali, Niger e Kenya. E' membro dell'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e presidente della sezione veneta.