Pacifisti made in Usa

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Non è solo il resto del mondo che il 20 marzo manifesta contro la guerra e la politica dell'amministrazione Bush: per quel giorno, negli Stati Uniti sono previste circa 200 marce per la pace. Anzi, l'idea di una grande protesta mondiale nel primo anniversario dell'inizio del conflitto in Iraq è partita proprio dalle associazioni pacifiste statunitensi.

Marce che negli Usa hanno una valenza diversa: perché qui dire no alla guerra non è solo un'ideale, una questione di principio, ma implica necessariamente delle controproposte concrete su problemi che riguardano direttamente gli Stati Uniti. E' naturale che il generale "poniamo fine all'occupazione dell'Iraq" diventi "riportiamo i nostri soldati a casa". Ma spesso si dimentica che oltreoceano le politiche di Bush sono contestate anche perché, per esempio, trascurano il sociale. Ce lo ricorda Richard Becker, che con l'associazione A.N.S.W.E.R. ("risposta", nonchè acronimo di Act Now to Stop War and End Racism) organizza la marcia che si tiene a San Francisco.

Per cosa manifestate il 20 marzo?

La nostra richiesta principale è di porre fine all'occupazione coloniale dell'Iraq, dell'Afghanistan, di Haiti, e della Palestina da parte di Israele. Ma ci battiamo anche per le libertà e i diritti civili, compromessi con leggi come il Patriot Act e il generale giro di vite sulla riservatezza di tutti noi imposto da Bush dopo l'11 settembre, con il pretesto della guerra al terrorismo. E poi chiediamo che l'enormità di denaro compreso nel budget militare sia piuttosto utilizzata per creare nuovi posti di lavoro, migliorare la sanità pubblica e l'istruzione.

L'obiezione frequente fatta a chi propone il ritiro delle truppe dall'Iraq è che, senza i militari, nel Paese regnerebbe il caos, perché mancano ancora le strutture politiche e sociali necessarie. Non credete che sia così?

No. In tutti i Paesi che ho detto prima il disastro è stato creato dall'intervento degli Usa. I movimenti pacifisti credono che, messa così, questa obiezione - cioè che "noi occidentali siamo i soli che possono risolvere questi problemi di destabilizzazione" - sia un trabocchetto, una trappola. La gente che vive in questi Paesi è pienamente capace di determinare il suo futuro, e noi sosteniamo il suo diritto all'autodeterminazione. L'idea che l'Europa e gli Stati Uniti abbiano il compito di portare la stabilità è un'estensione dei concetti coloniali dell'Ottocento.

Come è cambiato il movimento per la pace negli Usa, un anno dopo l'inizio della guerra in Iraq? E' cresciuto o viene ancora bollato come "anti-patriottico" da chi sostiene Bush?

L'opinione pubblica è maggiormente contraria alla guerra ora di quanto lo fosse un anno fa. Molte persone hanno capito che l'intervento militare era basato su delle bugie. Per questo la destra si sente molto più debole, e le accuse di antipatriottismo ci vengono rivolte più raramente. Prima della guerra si era creata una grande polarizzazione negli Stati Uniti. Ma ora i sostenitori della guerra e dell'occupazione sono sulla difensiva.

Allora vi aspettate una maggiore partecipazione alle marce di quest'anno?

Sembra un paradosso, ma in realtà credo che ci sarà meno gente in piazza. Perché l'anno scorso c'era un'atmosfera da guerra imminente, piena di incognite: una situazione che inevitabilmente coinvolge di più i cittadini. Per la manifestazione di San Francisco prevedo comunque la partecipazione di parecchie decine di migliaia di persone.

Quali effetti hanno avuto negli Usa le stragi di Madrid dell'11 marzo?

Gli orribili attacchi avvenuti in Spagna hanno fatto scattare l'allarme a Washington. Si è visto quanto poco popolare sia la guerra, e come questo sentimento comune può far cambiare il governo di un Paese. La Casa Bianca è ancora più preoccupata di prima. E se Zapatero mantiene l'impegno di ritirare i soldati spagnoli dall'Iraq se entro il 30 giugno l'Onu non subentra alle truppe della coalizione, la minaccia per il governo statunitense diventa veramente seria.

Intervista di Alessandro Ursic da » Peace Reporter

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