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Onu: è possibile una governance globale?
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Si è appena concluso a New York il consueto dibattito dell’Assemblea Generale dell’ONU. I più o meno grandi della terra hanno sfilato e preso la parola al Palazzo di Vetro illustrando la politica estera del proprio Paese e tentando di fornire la formula per far fronte ai problemi globali e interni più scottanti. In verità in molti casi si è solo di gettato fango sulle politiche di altri Stati membri ma, nell’ottica di dialogo che pervade le strutture ONU, ben venga una schermaglia verbale tra governanti piuttosto che l’uso di ben altri strumenti di contrapposizione. Il punto sta chiaramente negli obiettivi che ci si pone. Pura comunicazione del proprio punto di vista? Tentativo di lanciare dei punti di raccordo per appianare una divergenza potenzialmente conflittuale? Possibilità di mettere in cattiva luce l’azione di uno Stato concorrente o “nemico”? Rafforzamento della coesione interna con prese di posizione nazionaliste e populiste? Ebbene, ogni anno la sessione dell’Assemblea Generale offre tutto questo: uno spazio di dialogo, un palco per lanciare messaggi di ostilità e risentimento, un forum di buoni propositi e di promozione di sagge politiche di governance mondiali.
Lo ha fatto anche questa 71° sessione sin dalla sua apertura il 13 settembre scorso. Peter Thomson della Repubblica delle Fiji, nominato presidente dell’Assemblea Generale, ha rilanciato quale tema centrale del dibattito gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), “una spinta universale per trasformare il nostro mondo”. Adottati solennemente nel 2015 alla scadenza degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio nell’anno che celebrava il 70esimo anniversario della nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, di fatto la grandiosa agenda di sviluppo che prevede ben 17 obiettivi e 169 target tarda a trovare terreno di attuazione concreta nelle politiche degli Stati membri. L’impulso ai 193 Stati membri dell’ONU affinché coordinino politiche, programmi operativi e risorse finanziarie è giunto anche dal Segretario Generale dell’Organizzazione, Ban Ki-moon, che non ha mancato inoltre di ribadire l’urgenza di implementare l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici; un riferimento che poi sarebbe stato toccato da molti altri Stati ma a cui mancano ancora le firme di 26 Paesi, pari a circa il 15% delle emissioni globali. L’alto funzionario sudcoreano ha inoltre colto l’occasione per ricordare la prossima scadenza del suo mandato, ricevuto nel 2007, e dunque i tentativi attualmente in corso per raggiungere un accordo sulla nuova nomina. Pur rilevando enormi difficoltà nel processo di “decision-making” dell’ONU (e il riferimento non può che essere a quella riforma fondamentale del Consiglio di Sicurezza che ancora tarda a giungere), ricordando i terribili conflitti in corso che segnano anche una regressione delle fondamentali norme del diritto umanitario con attacchi ai civili e agli ospedali, e accennando alla minaccia nucleare, Ban Ki-moon ha incoraggiato però la platea dichiarando che “dopo dieci anni passati a servire questa Organizzazione, oggi sono più convinto che mai che, proprio ora, abbiamo a disposizione i mezzi necessari per terminare i conflitti, la povertà e le persecuzioni. Possiamo davvero colmare il divario tra ricchi e poveri e far valere i diritti di tutti”.
La parola è poi passata a presidenti, capi di Stato e ministri. Il richiamo del presidente statunitense Obama, per l’ultima volta in questa veste nel consesso e terzo a parlare, al rafforzamento dei processi democratici contro populismi e nazionalismi che avvelenano la politica odierna è apparso un chiaro monito alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, che vedono un testa a testa tra la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump. L’importanza di una governance politica all’altezza delle situazioni torna nel discorso di incoraggiamento di un Obama che parla di un mondo a un bivio tra la scelta di decantare un’epoca passata semplificata e divisa, tra amici e nemici, tra buoni e cattivi, e il mondo odierno globalizzato nel quale “una nazione circondata da mura finirebbe solo con l’imprigionare se stessa”. Questo bagno di realtà dovrebbe però per Obama indurre ad attuare immediatamente dei correttivi poiché “un mondo in cui l’1% dell’umanità è più ricco del restante 99% non potrà mai essere stabile”; una frase del candidato Bernie Sanders, non giunto però alla designazione del Congresso democratico, che il premio Nobel per la pace nel 2009 fa sua, pur non riconoscendo gli evidenti limiti della sua azione al riguardo.
Coraggioso è apparso l’intervento dell’attuale ministra degli Esteri birmana. Aun San Suu Kyi, nel 1991 anch’ella Premio Nobel per la Pace dopo essere stata costretta per anni agli arresti domiciliari per la sua opposizione alla giunta militare al potere, ha affrontato la delicata questione legata alla condizione della minoranza musulmana rohingya, discriminata e perseguitata in una Birmania a maggioranza buddhista. Personalmente contestata per il suo silenzio sull’oppressione dei rohingya, circa un milione di abitanti considerati alla stregua di immigrati clandestini privi di documenti di identità, a cui è vietato l’accesso agli ospedali, alle scuole e al mercato del lavoro, San Suu Kyi si è detta pronta a sostenere l’istituzione di un comitato birmano che dia soluzione alla questione, comitato che sarà però guidato dall’ex Segretario Generale dell’Onu Kofi Annan, e ad accogliere ogni supporto possa venire dalla comunità internazionale per restituire la pace nel Rakhine (Birmania occidentale), che ospita la maggior parte di questa minoranza.
Le consuete schermaglie sulla questione israelo-palestinese hanno fatto registrare dei momenti di forte tensione diplomatica. In particolare le accuse alla folle politica espansionistica e di occupazione di Tel Aviv espresse in apertura di sessione dal Segretario Generale dell’ONU sono state duramente stigmatizzate dinanzi alla stampa dall’ambasciatore israeliano Danny Danon, che ha replicato parlando di un’interpretazione folle da parte dell’ONU dell’intera questione data l’impossibilità di un processo di pace non auspicato dal presidente Abu Mazen.
Nondimeno la sessione è stata accompagnata da una serie di interventi che hanno affrontato il tema delle forti migrazioni e dell’accoglienza di rifugiati e profughi, complice anche il Summit di alto livello sui Rifugiati e i Migranti svoltosi al Palazzo di Vetro il 19 settembre. Anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi nel suo discorso ha colto l’occasione per intervenire al riguardo facendo un riferimento letterario alla figura di Enea, l’uomo del viaggio, e alla “pietas” che porta con sé. “Senza pietas e senza attenzione agli altri” ha dichiarato Renzi “non c’è società”. Un’affermazione a cui occorre che seguano azioni ben più concrete a livello nazionale e globale.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.