La guerra a Parigi. Alcune riflessioni

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Di fronte ai recenti fatti tragici di Parigi, si rincorrono notizie, analisi, prese di posizione che in fondo ricalcano quelle parole che abbiamo sentito tante volte. Ciò non toglie l’incommensurabilità dell’accaduto. Quando scompare una sola vita umana, viene annientato il mondo intero. Vogliamo così dare il nostro piccolo contributo per trovare parole di resistenza e di sopravvivenza. Sono frammenti di riflessione senza grandi pretese. L’unico modo forse per “restare umani”.

La terza guerra mondiale “a pezzi”. Questa espressione di Papa Francesco è entrata prepotentemente nella descrizione dell’attuale fase storica. L’evocazione della “guerra mondiale” colpisce in maniera nettissima l’immaginario collettivo, ma rischia di essere fuorviante. Due grandi fenomeni hanno cambiato la natura della guerra: le armi atomiche e la globalizzazione (dei mezzi di comunicazione, della finanza, dei mezzi di trasporto). La seconda guerra mondiale, ancora più che la prima, è stata una guerra “totale”, combattuta con l’utilizzo di qualsiasi arma a disposizione (aerei, sommergibili, missili, gas e alla fine pure la bomba atomica), volta a distruggere completamente il nemico, senza fare distinzione tra civili e militari. La “terza guerra mondiale” sarebbe dunque un conflitto autodistruttivo per l’umanità. Durante la guerra fredda la tensione causata dalla MAD=Mutual Assured Destruction (cioè dalla supposta mutua distruzione in caso di conflitto atomico) non è sfociata in una guerra aperta. Ciò potrebbe ancora accadere, ma nei fatti questo tipo di guerra è stato sostituito da un altro. Permangono conflitti regionali, combattuti ferocemente ma senza l’utilizzo di tutte le armi: in Afghanistan l’URSS non ha certo sganciato una bomba atomica, così come non lo hanno fatto gli USA in Iraq per esempio. La guerra totale di annientamento tra grandi potenze è abbastanza improbabile.

La guerra si è invece “globalizzata” e trova nella preponderanza dello spazio aereo (droni, bombardamenti, missili) il suo “fronte” privilegiato. Al di là della propaganda sulle “bombe intelligenti”, il bombardamento aereo è un’azione  bellica che semina il terrore dall’alto, senza curarsi di quanto accade sul terreno. Con i moderni mezzi tecnologici tale strategia di guerra può essere portata ovunque, da chiunque, senza regole se non quella del più forte.

Nell’ambito di questa “guerra globale” è sorto un nuovo tipo di guerra, chiamato asimmetrico che prevede azioni di guerriglia e di terrorismo. Il terrorismo è certamente una forma di guerra. L’altro versante della guerra globale. Noi pensiamo subito al terrorismo che viene dal Medio Oriente. Certo, è il fenomeno più terribile. Eppure, se allarghiamo lo sguardo, in altre parti del mondo accadono eventi analoghi. Come chiamare la strage degli studenti messicani? Come leggere altrimenti il lunghissimo conflitto tra la Colombia e le FARC? E poi nel Sud Est asiatico ci sono stati e ci sono conflitti violentissimi: in Srilanka i kamikaze erano uno strumento abituale di guerra.

Anche a costo di essere cinici, occorre purtroppo ammettere che questa è la guerra contemporanea. Dovremo abituarci ad essere in prima linea, colpiti magari non da un bombardamento aereo, ma da azioni terribili come quelle di Parigi. Questo fenomeno ci accompagnerà per i prossimi anni. Prima il nemico era Bin Laden, adesso l’ISIS: possiamo arginare la violenza, ma sarà molto difficile estirparla. Vivremo momenti di calma o di maggiore tensione, ma ci vorranno decenni prima di modificare la situazione.

Ciò non significa abituarci alla “quotidianità” della guerra, ma essere consapevoli di dover investire tutte le forze sulla cultura della pace. Rivendicare uno stile di vita aperto e accogliente. Credere nella forza dell’educazione e delle idee positive. Non cedere alla militarizzazione della società.

La classifica dei morti. Sappiamo che esiste una gerarchia anche nelle tragedie. Se un attentato avviene negli Stati Uniti ha l’impatto più grande. Seguono Parigi, Londra. Già Madrid è uno scalino sotto (quasi nessuno in questi giorni ha ricordato la strage di Atocha del 2003). A un livello più basso sta la Russia. Poi via via la Turchia, sotto sta il Libano. Ciò che avviene in Africa non conta. Ci sono i “Paesi emergenti” anche in questa classifica, benchè siano ancora indietro: la Cina sta sorpassando l’India, benchè la tensione in Tibet o nelle province cinesi dell’ovest non fa notizia.

È ovvio che la morte di una persona vicina, che conoscevamo, di cui sappiamo nome e cognome, che ci assomiglia, che ha le nostre stesse abitudini colpisce di più di quella di un estraneo. Ciò è inevitabile. È umano, forse è giusto. Ma non funziona nel contesto globale quando le informazioni girano velocissime. I morti di Beirut, le centinaia di migliaia di morti in Siria sono per noi completamente anonimi, ma non possiamo dimenticarli. Sono vittime anch’essi della guerra globale, come i giovani di Parigi.

Fermare la guerra in Siria con ogni mezzo (anche militare). Dalla storia sappiamo che le maggiori atrocità accadono in un contesto di guerra o di stati falliti. La Siria è il punto di svolta. Occorre far tacere le armi, anche  con la forza. La guerra va fermata. Non si tratta dell’alternativa tra pacifisti e interventisti, perché la guerra c’è già. Non servono bombardamenti più che altro simbolici sulle zone controllate dall’Isis. Ci dovrebbe essere un processo di cessazione delle ostilità, coinvolgendo quanti più gruppi possibile. Ovviamente l’ISIS non ci starà. A quel punto non sarebbe da escludere un’azione militare risolutiva.

Le dichiarazioni di Hollande sembrano tuttavia propaganda. Sappiamo che i nostri più forti “alleati”, l’Arabia saudita e la Turchia, ciascuno per specifiche ragioni, tollerano l’ISIS, lo hanno pure finanziato e continuano ad avere un comportamento ambiguo. Per non parlare delle armi che noi vendiamo a quei regimi, ma che poi, attraverso percorsi tortuosi ma ormai noti, arrivano al cosiddetto Stato islamico. Compriamo da loro il petrolio. Tanta retorica dunque. Cominciamo a  considerare questo quadro regionale. Poi ci potrebbe anche essere un’azione militare: se invece puntassimo solo ad una soluzione bellica moltiplicheremo la tensione.

Ma poi? Il non detto dei Paesi occidentali è questo: mettiamo una figura forte (tipo Al Sissi) che faccia quello che vuole internamente, ma almeno sorvegli i confini. La stabilizzazione degli Stati non significa sponsorizzare regimi quasi dittatoriali. Perché essi sono basati sulla repressione; la repressione genera la reazione violenta (e a volte terroristica) di quanti vengono completamente emarginati dalla vita civile. La democrazia, basata sull’inclusione, è anche maggiormente capace di controllare il proprio territorio.

La questione religiosa. È chiaro che l’ideologia fanatica dei terroristi si nutre di una visione religiosa per quanto distorta. I maggiori studiosi di Islam affermano che tale deriva sia una sorta di “eresia” del mondo musulmano, tradizionalmente “quietista”. Si tratta di un fenomeno moderno che noi facciamo fatica a capire. Ci impressiona l’utilizzo della religione come giustificazione della violenza, ma forse i gridi di battaglia che tirano in campo Dio c’entrano poco con una prospettiva di fede. Per qualcuno uccidere gli “apostati” potrebbe garantire la salvezza eterna, per i mandanti tuttavia la religione serve solo per il proprio potere.

Migrazioni e terrorismo. Occorre ribadire con forza che il fenomeno migratorio non riguarda questo tipo di terrorismo: siamo infatti di fronte ad azioni belliche ben coordinate, eseguite da individui ben preparati che, in questo caso, hanno trovato in Siria i campi di addestramento, le armi, l’indottrinamento ideologico. I poveracci che arrivano in Europa non c’entrano nulla. Tutti lo sanno, ma è troppo forte la tentazione di lucrare qualche consenso, gettando fumo negli occhi.

L’equazione Islam=terrorismo fa il gioco dell’ISIS il cui obiettivo principale, secondo il professor Massimo Campanini, “resta quello di costringere l’Occidente a una reazione inconsulta. L’islamofobia montante, opportunamente alimentata dai mass-media (e da non pochi intellettuali) che identificano surrettiziamente Islam e terrorismo, potrebbe servire allo scopo”. 

Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.

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