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La disciplina della terra
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Quando accadono tragedie come quella del terremoto o della valanga che ha sommerso l’hotel sul Gran Sasso, le reazioni si distinguono tra il fatalismo e la ricerca dei colpevoli. Si discute sull’eccezionalità degli eventi meteorologici, sull’inefficienza dei soccorsi. Divampano le polemiche, ma questo fuoco di accuse e contro accuse non serve per scogliere la neve, per rendere praticabili le strade, per riportare le persone a un minimo di normalità. Non serve per ritrovare i dispersi, per far rivivere i morti.
È giusto cercare le responsabilità individuali e collettive. Non esistono le “cause naturali” in termini assoluti. Soprattutto in questo tempo, in cui l’ambiente esterno subisce pesantemente l’intervento dell’uomo. Delicati equilibri vengono alterati, attraverso l’assoggettamento della natura che presenta effetti positivi, ma pure danni collaterali difficilmente quantificabili.
L’Italia è il Paese in cui una chiara assunzione di responsabilità non esiste. Rimangono sempre scappatoie, doppi pensieri, doppi standard, recriminazioni e vie di fuga. I rimpalli reciproci, spesso giustificati da assurde motivazioni di schieramento politico, sono inaccettabili specie in ambiti cruciali come la tutela del territorio. Il susseguirsi di “emergenze” dovrebbe renderci consapevoli che alcuni fenomeni distruttivi possono capitare e che purtroppo prima o poi capiteranno per davvero. Ogni anno si ripete “l’emergenza freddo” nelle città italiane e ogni anno contiamo qualche vittima tra i senza fissa dimora. La neve non è un fatto eccezionale al centro Italia: paradossalmente, ma non tanto, nevica di più sul Gran Sasso che sulle Dolomiti. Se tutti si auto assolvono non cambierà nulla. La tragedia del Vajont – la cui memoria dovrebbe stagliarsi nella nostra mente come la diga che tuttora incombe come monito su Longarone – ci parla di una catastrofe annunciata, annunciatissima; nessuno ha ascoltato gli avvertimenti che arrivavano dalla montagna franante e dalle popolazioni terrorizzate dalle continue scosse di terremoto. Sono passati più di 50 anni, è cambiato troppo poco.
La ricerca dei “colpevoli” non dovrebbe però essere dettata dal desiderio di trovare il capro espiatorio su cui riversare rabbia e dolore. L’atteggiamento vendicativo, comprensibile forse nelle vittime, va assolutamente evitato da parte di quanti gestiscono in concreto la situazione, ma anche dall’opinione pubblica, da chi commenta i fatti senza esserne stato minimamente sfiorato. A chi non è stato coinvolto nella tragedia, si chiede moderazione e attenzione. Le colpe vanno esaminate per un fine ben preciso: evitare che questi episodi si ripetano in futuro. Prevenire prima di punire.
Lo stato di diritto poi ci impone di considerare ciascuno secondo le sue azioni individuali, guardandoci dall’emanare sentenze già scritte che coinvolgono genericamente “lo Stato”. Anche in questo caso la vendetta o la generalizzazione finiscono per incidere poco sulle condizioni reali. Si fanno i processi – che sovente terminano con prescrizioni o assoluzioni – ma poi ci si dimentica.
Tentando di guardare più in profondità, nuove riflessioni scaturiscono. Una bellissima canzone di Ivano Fossati si intitola “La disciplina della terra”. La terra in cui l’uomo abita, che fin dal principio “lo raccolse infante e lo nutriva”, ha una sua vita interna, un suo incessante processo di trasformazione, a volte armonioso, a volte distruttivo. L’ambiente naturale ha una sua “disciplina”. Si ritrovava in quella sapienza antica che passava tra i padri e i figli nella vita contadina, a contatto con una terra dura e ostile che però forniva il necessario sostentamento. Ora non esiste più questa trasmissione di vita, di sapienza della vita. È per questo forse che non capiamo più i segnali che ci provengono dall’ambiente. Ci consideriamo superiori, onnipotenti.
Quando invece siamo costretti a fare i conti con forze più grandi di noi, balbettiamo qualche parola, oppure appunto cerchiamo i colpevoli. Ancora una volta per auto assolverci. La mentalità diffusa parte da una fiducia assoluta nella tecnica che ci permetterebbe di fare ciò che desideriamo. “Volere è potere”: questo il motto della modernità, assurto oggi a presupposto fondamentale del nostro stile di vita. E dato che tutto è possibile (basta volerlo), se le cose vanno male, sarà sicuramente colpa di qualcuno. Se il paziente muore, non è conseguenza della malattia, ma della malasanità. Se la valanga travolge, non pensiamo al fatto che l’albergo non doveva essere costruito là, ma alla mancanza di soccorsi.
In fondo la “disciplina della terra” – e della vita - è la consapevolezza e l’accettazione dei nostri limiti. Della nostra impari lotta contro gli eventi esterni, contro la nostra stessa mortalità. Solo attraverso la conoscenza del limite potremmo costruire un mondo più giusto e più sicuro. Potremmo divenire certi della nostra comune umanità che, oggi più che mai, non può essere disgiunta dalla nostra appartenenza alla “natura”, sempre oscillante nel suo ruolo di matrigna e di madre.
Articolo pubblicato dal “Trentino” il 22 gennaio 2017
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.