L’inverno dei capodogli spiaggiati

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L’inverno dei capodogli spiaggiati. Potrebbe sembrare il titolo di un libro di avventure naturalistiche, un po’ giallo un po’ thrilling. Eppure qui, di misterioso c’è ben poco, anche se di racconti che fanno venire i brividi la storia (nordica) abbonda. Setting: coste dell’Inghilterra, nei dintorni di Skegness (Lincolnshire). Cinque giganteschi cetacei che a fine gennaio hanno esalato la vita su quel litorale, come avevano fatto poco tempo prima altri dodici esemplari in terra d’Olanda e di Germania. Mentre femmine e cuccioli preferiscono le acque più calde, gli esemplari maschi vivono in mare aperto e cacciano a profondità di circa 3000 metri. Sono stati spesso avvistati al largo delle isole Shetland, della Norvegia o dell’Islanda, ma quelli di loro che si avventurano sui fondali del mare del Nord corrono rischi di cui non sono consapevoli: la profondità delle acque sulla piattaforma continentale europea non supera i 200 metri (a volte il fondale è appena 20 metri sotto la superficie dell’acqua ed è in leggera pendenza) e questo rappresenta per loro un grave pericolo.

Com’è noto, questi grandi mammiferi si affidano per gli spostamenti a un sistema di biosonar, inviando cioè impulsi sonori che, rimbalzati dalle superfici che incontrano, ritornano indietro dando ai cetacei la possibilità di “vedere” l’ambiente in cui si muovono, altrimenti caratterizzato dall’oscurità sottomarina che impedirebbe di orientarsi. Un sofisticato “impianto radar” che non funziona però come dovrebbe su un fondale sabbioso e poco profondo, come lo è appunto quello davanti alle cose del nord Europa, che disorienta irreparabilmente gli animali.

Peter Evans, direttore della Sea Watch Foundation, spiega le ragioni di questo comportamento letale: seguendo probabilmente gli spostamenti dei calamari di cuii capodogli si nutrono abitualmente, il branco è rimasto bloccato dirigendosi verso sud, dove il fondale poco profondo ha causato un collasso cardiovascolare che ha determinato il cedimento degli organi interni. L’autopsia, eseguita da esperti dello Scottish Marine Animal Stranding Scheme, ha confermato le buone condizioni degli esemplari deceduti, rilevazione che ha escluso la disidratazione (pur vivendo in acqua, l’acqua che incamerano la ottengono dal cibo). Gli esami hanno anche scongiurato lo scontro con una nave o, peggio ancora, cause legate all’essersi impigliati nelle reti da pesca, che rimangono comunque cause significative per la morte di questi animali. Dalle analisi è rimasta esclusa l’osservazione del cervello, che potrebbe ricondurre a improvvisi spaventi o a malattie.

Di esemplari spiaggiati sulle coste del nord Europa si ha notizia sin dal 1577, anche se i numeri sono in costante aumento da allora a oggi (una media di 6 ogni anno dal 1980). In questo caso le cause dei recenti e numerosi decessi non sembrano essere imputabili all’azione umana. Si valutano ragioni connesse al semplice aumento degli esemplari (in relazione all’”embargo” sulla caccia alle balene) o alle possibili correnti calde che avrebbero invogliato i maschi a rimanere nella acque del nord, ma si considera anche la possibilità che alcuni esemplari abbiano raggiunto i segnali inviati dal sonar di un membro in pericolo e che questa sia stata la causa dell’arenarsi del gruppo. E’ tipico infatti di questi enormi cetacei vivere e spostarsi in gruppi sociali coesi, tra i quali gruppi di maschi che raggiungono la maturità sessuale intorno ai 18/19 anni di età e che possono vivere fino a 65/70 anni, i quali, in fase adolescenziale, lasciano le calde acque delle latitudini (sub)tropicali per dirigersi a nord, a volte proprio abbandonando i branchi natali per un aumento della concorrenza nell’accoppiamento con le femmine.

Di certo non possiamo escludere a cuor leggero le preoccupazioni che fanno risalire gli spiaggiamenti alle attività dell’uomo, preoccupazioni alle quali sono soprattutto le associazioni ambientaliste a dare voce. Gli oceani stanno diventando sempre più pericolosi e “affollati”, di rifiuti e di ostacoli (pescatori di frodo, reti da pesca a strascico), ma anche di rumori. Non possiamo dimenticare che l’inquinamento acustico provocato da navi, trivelle, piattaforme petrolifere e simili rappresenta ancora una delle cause più gravi e certamente non trascurabili delle difficoltà a orientarsi per balene e mammiferi che utilizzano sistemi di spostamento a radar. 

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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