L’eterno ritorno dei falsi problemi: il salario minimo

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A intervalli regolari riappare sugli schermi italiani l’ennesimo falso problema, acceso dall’ideologia populista dominante, che si sa, poco riesce ad approfondire i temi, ma fa leva sul malcontento viscerale, su un’ignoranza dilagante, ed il politico che la spara più grossa. Il dibattito sul salario minimo legale non è l’eccezione. Sembra di essere a un’asta a rincorrere la miglior offerta: chi dice 9 euro, chi 8,5 netti e siamo a posto, chi 10, chi offre di più? Come se il governo di turno fosse un organo superiore in grado di decidere il prezzo del lavoro, alla stregua dello statalismo più estremo. Ignorando i principi economici che determinano un salario da una parte, e dall’altra l’esteso schema di contrattazione collettiva del lavoro che abbiamo in Italia, che già prevede dei minimi salariali. Ma si sa che gli argomenti più sono complessi e più si prestano al ciarlatanismo spiccio.

L’economia ci insegna che il salario di un lavoratore dovrebbe essere corrisposto in base alla produttività del suo lavoro (o reddito pro capite). Purtroppo sappiamo anche che nel nostro paese la produttività è enormemente diversa a seconda della geografia, con squilibri significativi tra Nord e Sud. Fissare un salario minimo unico a livello nazionale creerebbe evidenti distorsioni: per esempio un salario minimo netto di 9 euro a Reggio Calabria sarebbe completamente fuori scala ed avrebbe effetti devastanti sul aumento dei costi per le aziende, e dunque sull’attrattività di investimenti (e delocalizzazioni), sulla disoccupazione e sull’incentivazione al lavoro informale. L’Italia ha un problema atavico con la bassa produttività del lavoro e da decenni ormai dovrebbe concentrarsi sull’incentivare lavori a più alto valore aggiunto. Se in Germania qualche anno fa si è fissato un salario minimo di 8.50 euro (adesso leggermente aumentato), in Italia necessariamente dovrebbe essere inferiore, visto che genera minor reddito.

Tralasciando l’aspetto teorico, i difensori del salario minimo in Italia sembrano però essere all’oscuro del fenomeno della contrattazione collettiva. Oggigiorno, circa l’85% dei lavoratori in Italia si appoggia già a un CCNL con salari minimi praticamente mai inferiori ai 10 euro. Questi contratti contengono già dei minimi salariali diversificati per settore, che non sono fissati per legge, ma sono frutto di negoziati tra i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro (come Confindustria). È pur vero che il sistema italiano è oltre modo confuso (circa 800 contratti collettivi vigenti, di cui solo un terzo firmati da CGIL, CISL e UIL) ma l’introduzione della misura andrebbe di fatto a scalfire il ruolo dei sindacati attivi nella contrattazione collettiva settoriale, riducendo la protezione del lavoratore fragile. Poi, un discorso a parte sarebbe da fare rispetto al potere dei sindacati che negli anni è probabilmente venuto riducendosi, portando alla proliferazione di tipi di contratti ed alla disgregazione dei settori. Ma i contratti sono ancora più che validi.

Ciò non significa ovviamente negare il problema di salari bassi in certi lavori, magari usuranti e rischiosi. Studiosi come Garnero e Lucifora hanno rilevato che tra il 10 e il 20% dei dipendenti italiani sono pagati meno dei minimi salariali fissati nel contratto collettivo di riferimento. Le violazioni si presentano trasversalmente in tutti i settori, ma in particolar modo nell’agricoltura, commercio, alberghi e ristorazione, ed in generale nei servizi a basso valore aggiunto. Soprattutto nel Sud e nelle micro e piccole imprese. Ed è lì, appunto, dove bisogna agire. Vi è poi un problema di lavoro in nero, e di vero e proprio sfruttamento di fronte al quale non possiamo essere neutrali. Ma quello è un problema distinto, che il salario minimo legale non risolverebbe in ogni caso, perché chi lavora nell’illegalità a maggior ragione continuerebbe a farlo. 

Alla misura, oltre ai suddetti sindacati, si è espresso contrario anche il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi, il quale ha sostenuto: “In Italia non serve introdurre un salario minimo ma agire sui contratti di quei settori dove il salario è troppo basso, o inserire i contratti per quei settori che ora ne sono sprovvisti”. Similmente al parere dei sindacati, ha aggiunto che il rischio legato all’introduzione del salario minimo legale nazionale è quello della fuga delle aziende dalla contrattazione collettiva, di cui Ita ne è un caso recente.

La tesi secondo la quale in tutti i paesi Europei esiste già un salario minimo imposto per legge e l’Italia deve adeguarsi, è, come abbiamo visto, fuorviante. Per dare un minimo di contesto: dei 36 paesi OCSE, è vero che 28 dispongono di una legislazione che fissa un salario minimo, ma è anche vero che i restanti hanno equivalenti misure di protezione dei lavoratori più vulnerabili. Oltre all’Italia, appartengono a questo gruppo Austria, Svizzera, ed il blocco di paesi scandinavi, tradizionalmente molto virtuosi nella definizione di contratti collettivi (e non solo). A differenza delle fantasie che si narrano, soprattutto tra le fila del M5S, la direttiva che si sta discutendo in queste settimane in Commissione Europea, non mira alla creazione di un utopico “salario unico europeo”, ma spingerebbe la contrattazione collettiva nei paesi che la ignorano o snobbano, fissando la soglia minima del 70%, senza comunque intaccare la specificità dei regolamenti dei singoli paesi. Una soglia tra l’altro ampiamente coperta dall’Italia.

In sostanza si tratta di un classico argomento da analizzare con le pinze e le competenze richieste – come fece a suo tempo il neo premiato Nobel per l’Economia David Card -, e non a suon di scorciatoie populiste. Infatti, a far pensare che il governo probabilmente non prenderà in considerazione la misura sono le parole dello stesso ministro del Lavoro Orlando: “L’introduzione del salario minimo indebolisce i lavoratori, non li rafforza, credo che vada legata a una legge sulla rappresentanza, inquadrandola nel perimetro della Direttiva europea, per non ridurre la forza di contrattazione del sindacato”.

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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