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L’estinzione e le colpe… di chi?
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Foto: Gregory Atkats da Unsplash.com
Gli uomini hanno capacità distruttive uniche e inimitabili. Pensiamo ai piccioni migratori (Ectopistes migratorius), che erano soliti volare in cielo in stormi talmente densi da oscurarlo temporaneamente al loro passaggio. Centinaia di milioni di esemplari, che impiegavano ore a sorvolare le nostre teste. Poi abbiamo iniziato a sparare loro per finalità commerciali e dal 1914 sono considerati estinti. Un esempio semplice e non tra i peggiori di come l’uomo sia in grado, in maniera rapida ed efficiente, di annientare una specie, persino tra le più comuni. La domanda che ci poniamo è: soltanto l’uomo è in grado di farlo, o esistono anche animali in grado di portare altri animali all’estinzione?
La risposta come spesso accade è complessa, e in ogni caso non ci lascia fuori dai giochi. Esistono infatti alcuni animali in grado di rappresentare una minaccia concreta all’estinzione di altri esseri viventi e capaci di decimare un’altra specie, e non di rado questo accade quando noi umani “trasferiamo” (in particolare attraverso il commercio e la gestione illegale di animali esotici) una specie in un posto che non le appartiene, rendendola invasiva e quindi dannosa sia ecologicamente che economicamente per l’ecosistema in cui si trova come alloctona. È ciò che è accaduto, per esempio, con il pitone delle rocce birmano (Python bivittatus), importato dall’Asia e liberato o sfuggito in quell’intricato complesso subtropicale di zone umide, laghi e fiumi che è il sistema ecologico di Everglades, in Florida.
Le specie che non riconoscono o non rispondono in maniera appropriata alla presenza di nuove specie nel loro ambiente, vengono chiamate “naive”: non si tratta però di un’ingenuità, pur ecologica, che le rende in qualche modo colpevoli. Gli animali non si evolvono per fuggire o difendersi da nemici alieni in tempi rapidissimi e gli adattamenti non avvengono all’improvviso. Anche perché il modo principale in cui le specie aliene attaccano quelle native è il consumo, ovvero la predazione. Come sostiene il prof. Tim Blackburn (University College London), questo meccanismo conferisce al predatore una sorta di “vantaggio innato che gli permette di sopravvivere a scapito della fauna locale”. Si pensi per esempio a situazioni meno eclatanti e più comuni: il gatto domestico. La sua presenza ha contribuito all’estinzione di dozzine di specie di uccelli e in Canada e negli Stati Uniti è la principale causa – innescata dall’uomo – della mortalità dell’avifauna (dati American Bird Conservancy), maggiore perfino rispetto alla caccia.
Coloro che muovono animali selvatici, in particolari predatori felini e serpenti giganti, in giro per il pianeta sono gli uomini: e sugli uomini ricade la responsabilità di ciò che può succedere in seguito a questi trasferimenti. Perché se gli animali migrano naturalmente su nuove aree, in genere sono destinazioni prossimali, che hanno caratteristiche per lo più simili e che quindi sono in grado di rispondere in maniera appropriata alle nuove dinamiche relazionali che possono instaurarsi senza che si creino, diciamo così, accoppiamenti iniqui. Situazioni di incontri drastici avvenuti per cause naturali sono estremamente rari e avvenuti per lo più per cause geologiche, come ad esempio l’unione di placche tettoniche come quella che, tra i 10 milioni e i 10.000 anni fa, ha unito Nord e Sud America, creando un ponte di passaggio per le specie che ha portato verso sud orsi e grandi felini selvatici e a nord armadilli e bradipi.
Ma se per le specie invasive il quadro è relativamente chiaro, gli scambi naturali disegnano uno scenario più complesso: non si tratta di un istante nel tempo della storia della Terra, ma di parecchi milioni di anni e di fasi diverse che si sono succedute in tempi molto dilatati e accompagnati da significativi cambiamenti climatici che contribuiscono a moltiplicare le possibili cause di estinzione di alcune specie durante quello che viene chiamato Great American Biotic Interchange, evento straordinario che, nel Pliocene, ha cambiato drasticamente la fauna del Nord e del Sud America.
Nella complessità degli elementi che la questione porta sul tavolo, sicuramente va considerato il fatto che, pur forgiandosi l’evoluzione animale su un terreno di continue battaglie per la sopravvivenza, nessun predatore esiste per estinguere le proprie prede, perché questo sancirebbe la fine delle sue stesse possibilità di sopravvivenza. Il fatto che un predatore abbia prede multiple garantisce la sopravvivenza di tutte le specie. Al momento non esistono casi di studio in cui una specie ne abbia consumata un’altra fino a estinguerla, se non a causa dell’intervento umano.
Al contrario di quanto accade per gli animali, è chiaro che gli uomini rivestono un ruolo significativo nelle cause che generano l’estinzione di alcune specie, in particolare nella distruzione dei loro habitat e, come già accennato, nell’introduzione di specie invasive. Processi con effetti drastici, la cui evidenza è allarmante e, per tempi e modi, tragicamente diversa da ciò che da millenni è accaduto naturalmente sul Pianeta.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.