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Israele e Palestina, torna la paura
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Il 2 dicembre del 2016 è una data che appartiene al silenzio della storia, per quanto riguarda il pluridecennale conflitto israelo-palestinese: non è successo nulla di davvero rilevante. Eppure, è una giornata che conserva qualche importanza nella percezione che, di quel conflitto, possono avere i cittadini italiani: Netflix, il gigante statunitense della distribuzione cinematografica e televisiva, ha reso disponibile, per la prima volta nel nostro Paese, la serie israeliana “Fauda”, andata in onda nello stato d’origine l’anno precedente. Cosa c’entra tutto questo con la politica mediorientale e con le previsioni per il 2017? In apparenza, niente. Scavando in profondità, molto. Perché Fauda, avventura individuale e collettiva di un gruppo di agenti del servizio segreto militare di Tel Aviv, a caccia di un attivista di Hamas redivivo, alias “la Pantera”, ha tanto da raccontare sulle dinamiche di una contrapposizione -è bene ricordarlo- tuttora in atto.
In primo luogo una cosa: che il “caos”, evocato dal titolo della fiction, non è una caratteristica continuativa di quella guerra, talora calda, più spesso fredda: è piuttosto una minaccia sempre incombente, un’eco sinistra. Una biglia instabile, sul bordo di un piano inclinato. Dovremmo tenere alta la guardia, poiché il riposo delle armi, soprattutto in questo caso, non coincide con la pace. E l’equilibrio di quell’area è tutto ciò che ci rimane prima che il fuoco dell’odio divampi oltre l’Iraq e la Siria. Ma proprio la tragedia siriana ci porta, comprensibilmente, a volgere lo sguardo altrove. Così, Gerusalemme, capitale dello spirito e del sangue, scivola piano piano nel cono d’ombra dei conflitti dimenticati. Pronti a riaccendersi.
I segnali d’allarme non mancano. Il 23 dicembre è stato, con ogni probabilità, il momento di più forte tensione degli ultimi mesi. A 37 anni dalla risoluzione 446 delle Nazioni Unite, in cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dichiarò l’illegittimità degli insediamenti israeliani a Gaza e nella West Bank, l’astensione degli Stati Uniti ha permesso di approvare una nuova risoluzione, che intima di «cessare immediatamente e completamente ogni attività concernente gli insediamenti nei territori palestinesi, compresa Gerusalemme est» e di «smantellare gli insediamenti costruiti dopo il marzo 2001». Alcuni l’hanno considerato l’ultimo colpo di coda della presidenza Obama contro il mai troppo amato primo ministro d’Israele, Benyamin Netanyahu, che per tutta risposta ha sollecitato il rilascio di permessi di costruzione per 618 ulteriori case, situate nella parte est di Gerusalemme. Al di la delle dietrologie politiche, si tratta di un atto dichiaratamente ostile nei confronti della politica espansiva dello stesso Netanyahu, che negli ultimi anni ha deciso di non indulgere in cautele, rafforzando insediamenti che contano, solo in Cisgiordania, circa 430.000 coloni israeliani. In aperto contrasto con il pronunciamenti internazionali. Ora le frizioni, già numerose e radicate, sono venute alla luce. Ed è difficile che tutto rimanga senza conseguenze.
L’incognita Trump. Se l’intervento del presidente americano uscente non ha contribuito a rasserenare il clima, gli annunci del suo successore in pectore gettano, senza troppi imbarazzi, benzina sul fuoco. Donald Trump, in uno dei primi discorsi del dopo elezioni, ha infatti annunciato il nome del prossimo ambasciatore Usa in Israele: l’avvocato 57enne David Friedman, attivista assai vicino ad ambienti ultraconservatori filo-israeliani, che, non ancora “in parte”, ha rinunciato a ogni morbidezza diplomatica dichiarando «di non vedere l'ora di compiere la propria missione nella capitale eterna di Israele, cioè Gerusalemme». Un possibile spostamento della sede diplomatica da Tel Aviv alla “città contesa” che ha fatto saltare in piedi i rappresentanti palestinesi: per bocca del segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, hanno infatti replicato che la questione dello status di Gerusalemme deve essere regolamentata attraverso un negoziato tra le parti e che una scelta di questo tipo sarebbe «la distruzione del processo di pace». Insomma: cattivi presagi, che portano a considerare il 2017 un anno carico di molte promesse per quella terra antica, rimpianta da Mosè, percorsa da Gesù e ammirata da Maometto, ma molestata dalla storia. E sono promesse, purtroppo, non proprio rassicuranti.