Invisibili

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I dati lasciano senza fiato: entro il 2050 ci saranno circa 200-250 milioni di rifugiati ambientali, una media di 6 milioni di persone all’anno costrette a emigrare a causa di calamità naturali e degli effetti del surriscaldamento globale. Ce lo racconta l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che aggiunge che «negli ultimi venti anni, il 90% delle catastrofi sono causate da fenomeni legati al clima, quali inondazioni, tempeste e siccità. I morti sono stati 600 mila, le case distrutte 87 milioni: l’anno scorso gli sfollati per calamità sono stati 19,2 milioni, e nel periodo 2008-2014, 157 milioni di profughi hanno abbandonato le loro abitazioni».

Questa fotografia della situazione attuale e di quanto potrà accadere in un futuro nemmeno troppo lontano è stata oggetto di discussione del convegno “Il secolo dei rifugiati ambientali? Analisi, proposte, politiche”, tenutosi lo scorso 24 settembre a Milano, organizzato dal Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica, su iniziativa dell’europarlamentare italiana Barbara Spinelli.

Un’occasione preziosa per denunciare quanto sta accadendo e lanciare delle possibili soluzioni.

Un primo passaggio è relativo alla maggiore caratterizzazione della figura di rifugiato ambientale, ovvero coloro che scappano da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche, che fuggono dalla desertificazione e dal collasso delle economie di sussistenza in seguito a crisi dell’ecosistema, dovute a cause naturali o attività umane: land grabbing, water grabbing, processi di “villaggizzazione” forzata, inquinamento ambientale, smaltimento intensivo di rifiuti tossici o radioattivi, scorie radioattive risultanti da bombardamenti.

Anche papa Francesco, in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, aveva lanciato un fragoroso grido d’allarme: «I cambiamenti climatici contribuiscono alla straziante crisi dei migranti forzati. I poveri del mondo, i meno responsabili dei cambiamenti climatici, sono i più vulnerabili e ne subiscono gli effetti».

Nonostante le misure fin qui prese per contenere i cambiamenti climatici e l’aggressione alle risorse naturali, l’espulsione dal proprio habitat di ampie quote della popolazione mondiale a causa del deterioramento ambientale è considerata inevitabile dalla maggior parte della comunità scientifica, in assenza di provvedimenti più radicali di quelli messi in atto fino ad oggi.

Eppure il fenomeno resta di fatto invisibile alle legislazioni e alla politica. Nemmeno la Convenzione di Ginevra e il Protocollo aggiuntivo del 1967 riconoscono lo status giuridico di chi fugge da catastrofi ambientali, specie se originate da azioni e interventi umani sulla natura.

Per ovviare a questa sorta di paradosso, il convegno ha avanzato una serie di proposte, a partire dall’individuazione degli strumenti di monitoraggio dell’uso dei fondi europei o nazionali per la cooperazione e lo sviluppo destinati a regimi che non rispettano i diritti umani. Quindi, bisogna denunciare come la separazione tra profughi di guerra e migranti economici, applicata nel cosiddetto “approccio hotspot” rischia di essere lesiva dell’impianto stesso del diritto d’asilo e che l’attuale politica europea dei rimpatri va rigettata nella sua forma attuale. C’è una precisa necessità di promuovere un’azione a livello parlamentare europeo per l’introduzione legislativa della figura del rifugiato (interno ed esterno) costretto alla fuga da una massiccia perdita di habitat e per evidenziare che è conveniente, oltre che rispettoso del diritto internazionale, sviluppare al massimo, e modificare, le politiche europee di accoglienza e integrazione di profughi e migranti.

Luca Manes

Fonte: nigrizia.it

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