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Inseguendo la pace in Yemen
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Foto di Cottonbro da Pexels.com
Che la pace sia vicina in Yemen?
Incredibilmente dal cessate il fuoco pattuito nell’aprile 2022, i livelli di violenza sono praticamente venuti meno; anche lo scambio di 887 prigionieri sembra un atto preliminare a un vero e proprio accordo di pace che lo stesso Inviato speciale dell’ONU, Hans Grundberg, ha dichiarato essere possibile dopo aver incontrato tutti gli attori regionali e internazionali intervenuti nel conflitto armato.
Possibile non vuol dire però facile.
Dopo 3 anni di instabilità a seguito della rivolta cresciuta nel fermento della cosiddetta “primavera araba” del 2011 che ha costretto lo storico presidente Ali Abdullah Saleh a cedere il suo potere a Abdrabbuh Mansour Hadi, dal 2014 lo Yemen è precipitato nel caos. Non che il Paese non fosse stato toccato dalla violenza già prima della guerra civile ma da quell’anno la distruzione e il conflitto hanno raggiunto picchi senza precedenti e sono iniziati i combattimenti tra due fazioni: da una parte il governo riconosciuto dalla comunità internazionale del presidente in carica (IRG, International Recognized Government of Yemen) e dall’altra parte il movimento ribelle di Ansar Allah (AA), anche detti Houthi, rispettivamente spalleggiati (armati e finanziati) principalmente da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti il primo e Iran il secondo.
Una classica guerra per procura tra le principali potenze mediorientali, gli uni leader degli arabi sunniti e degli sciiti, sul territorio e sul sangue degli yemeniti. Ma anche un conflitto che ha profonde radici interne che affondano nel fallimento dell’unificazione del Paese in 1990, con una marginalizzazione delle province meridionali private di rappresentanza politica, e nelle quali si sono alimentate spinte autonomiste, se non secessioniste, e in generale è stata coltivata una strisciante ribellione verso il governo centrale a livello politico e religioso. Se l’unificazione non ha funzionato, tantomeno ha portato buoni frutti il processo di transizione seguito alla rivolta popolare del 2011, anche perché ben presto il conflitto ha assunto i tratti di una guerra per procura a connotazione regionale, e anche settaria.
Insicurezza alimentare, crisi economica acuta e sistema sanitario allo sfascio, peggiorato comprensibilmente negli anni della pandemia di Covid-19 e di cui per anni le organizzazioni umanitaria hanno denunciato anche le barriere burocratiche, come le restrizioni ai movimenti umanitari e i ritardi nell’approvazione dei visti o dei permessi di lavoro, nonché continui episodi di violenza e di attacchi ai convogli umanitari che hanno limitato l’assistenza a più di 5 milioni di civili. Nel 2017 le Nazioni Unite hanno indicato il conflitto in Yemen come “la peggiore crisi umanitaria nel mondo”, un vero e proprio disastro con oltre 377mila morti e 23 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria, di cui almeno la metà è costituita da bambini. L’internazionalizzazione del confitto chiama in causa le responsabilità dirette dei Paesi intervenuti, soprattutto via aerea, sul territorio dello Yemen in questi anni ma anche le responsabilità indirette di quanti hanno esportato armi impiegate nel conflitto. Tra questi vi è l’Italia, accusata con un saldo regime probatorio di costruire e venire ordigni (bombe) che poi l’Arabia Saudita ha impiegato nella guerra in Yemen, anche contro la popolazione civile.
Tensioni regionali e geopolitiche hanno congelato per anni il processo di pace fino alla primavera dello scorso anno quando le Nazioni Unite hanno mediato il cessate il fuoco, e addirittura alla sua scadenza il 2 ottobre 2022 non c’è stato bisogno di rinnovarlo: da allora non si sono registrate grandi escalation sul campo ma al contrario sono state più intense (e realistiche) le trattative per stilare una roadmap verso una soluzione politica del conflitto. La ragione è molto semplice: occorre approfittare di questo periodo di allentamento della tensione militare per cercare di addivenire alla pace. “Lo Yemen ha bisogno di un accordo che includa una visione condivisa per il futuro, al fine di evitare il ritorno a un conflitto conclamato. Esorto quindi le parti a sfruttare al massimo lo spazio di dialogo offerto dall’assenza di combattimenti su larga scala”, ha affermato l’Inviato speciale dell’ONU Grundberg dinanzi al Consiglio di Sicurezza lo scorso 16 gennaio 2023. Da allora gli sforzi di dialogo tra tutti gli attori del conflitto hanno consentito una definizione più chiara della posizione delle parti e lo sviluppo di opzioni per soluzioni reciprocamente accettabili su questioni in sospeso. Ne beneficia anche una generale normalizzazione dei trasporti e dei traffici commerciali con la ripresa delle esportazioni di petrolio, la riapertura dell’aeroporto di Sana’a per i voli internazionali e il pagamento dei salari degli impiegati pubblici di tutto il Paese, incluse le zone sotto il controllo degli Houthi.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.