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Inquinare i fiumi è questione… di moda!
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Forse il nome a molti non dice nulla, ma a chi ha trascorso la propria adolescenza in compagnia delle puntate di Beverly Hills 90210, di sicuro il nome di Jason Priestley riproduce subito il volto di Brandon Walsh. Che fine avrà fatto? Priestley non ha perso la caratteristica del giovane impegnato e del bravo ragazzo che trasmetteva al suo personaggio e lo ritroviamo adesso come clean water supporter, attivista per l’acqua pulita che presta la voce narrante a RiverBlue. Il documentario è un viaggio che segue intorno al globo l’ambientalista Mark Angelo in un’inchiesta che si infiltra nei meandri di una delle industrie più inquinanti del mondo, quella della moda. In particolare in Cina che, dicono, è la fabbrica del mondo. E forse lo si può affermare proprio guardando qualche dato, che pur essendo una stima non si discosta di molto dalla realtà: circa il 70% di fiumi e laghi sono inquinati da quasi 9,5 miliardi di litri di liquidi di scarto dell’industria tessile.
L’inchiesta si concentra in particolare sulle pesanti conseguenze della filiera della moda, sui devastanti effetti provocati sull’acquasistema - come potremmo chiamarlo - e sugli insediamenti umani, non solo su quelli che contano sulle vie d’acqua per la propria sopravvivenza, ma anche su quelli che si trovano a chilometri di distanza. Due pratiche in particolare vengono messe sotto grave accusa: i durissimi trattamenti chimici che avvengono durante i processi di manifattura e l’irresponsabile smaltimento dei rifiuti tossici.
Le industrie in questione, in particolare tra Cina, India e Bangladesh, sono quelle che producono indumenti e accessori tra i più diffusi, ovvero denim e pellami, che richiedono processi di decolorazione e conciatura tra i più inquinanti che si possano immaginare. E la gravità della situazione è tale per cui tra le popolazioni che vivono vicino alle fonti d’acqua inquinate dalle fabbriche (dalle quali ricavano acqua per bere, cucinare, lavarsi) si è rilevato un tragico aumento nell’incidenza di cancro, gastrite, problemi della pelle e dell’olfatto, per non parlare della generazione ormonale e del sistema nervoso emersa in chi maneggia queste sostanze.
Nei corsi d’acqua, oltre agli effetti più evidenti di schiume inusuali e mulinelli colorati, navigano miliardi di particelle di cromo, che arrivano direttamente in tavola attraverso il latte di mucca o i prodotti agricoli. La situazione, come la definisce Sunita Narain, direttrice generale del Center for Science and the Environment in India. rappresenta un vero e proprio “idrocidio”, un deliberato atto di omicidio nei confronti di alcune tra le più importanti riserve d’acqua del mondo.
La domanda che in molti si pongono è se le industrie della moda e le aziende dei grandi marchi siano davvero tanto disinteressate alla salvaguardia dell’ambiente pur di produrre capi e accessori in maniera sempre più economica - per poi spesso venderli sul mercato con rincari sconcertanti… In effetti il peggioramento dei processi che regolano la produzione dei jeans non è stato improvviso, ma è iniziato con la firma del North American Free Trade Agreement: tra gli anni ’60 e gli anni ’90 la maggior parte dei jeans veniva prodotta in Texas (parliamo di circa 2 milioni di paia a settimana), ma con la firma dell’accordo le fabbriche si sono rapidamente spostate prima verso il Messico e poi verso Cina, Indonesia e Bangladesh dove i salari sono più bassi e sfortunatamente le regolamentazioni ambientali meno rigide. Il prezzo dei jeans ha quindi avuto un calo che ha inevitabilmente influito sull’aumento dei consumi: in America oggi si comprano in media 4 paia di jeans all’anno, in Europa 1,5 e in Cina, nella provincia dello Xintang, se ne producono 300 milioni all’anno. Non serve un cervello matematico superiore per fare due calcoli, se si pensa che per produrre un paio di jeans - uno soltanto! - servono quasi 3500 litri d’acqua.
E’ quindi comprensibile che il documentario provi a investigare anche nella direzione opposta, quella delle soluzioni innovative in termini di tecnologie industriali per la produzione di capi che siano alla moda ma che rispettino contemporaneamente l’ambiente. Si pensi ad esempio all’operazione di autocritica e alla svolta verso la sostenibilità intrapresa da François Girbaud per la produzione di jeans venduti con un effetto di scolorito ottenuto non attraverso l’utilizzo di acqua bensì di minuscole pietre. Ma non è l’unico esempio: la spagnola Jeanologia, per esempio, ottiene un effetto analogo attraverso un sistema di stampa a laser che utilizza luce e aria ed è riuscita ad eliminare l’utilizzo dell’acqua senza un aumento di prezzo per la produzione dei capi. Anche in Italia c’è un’azienda che prova a muoversi in questa direzione, l’Italdenim di Milano, che pur continuando a utilizzare l’acqua sta sperimentando un sistema di fissaggio del colore attraverso il chitosan, sostanza non pericolosa per i lavoratori che permette un riutilizzo multiplo dell’acqua e un risparmio economico sulla produzione.
Come spesso anche noi ricordiamo, come consumatori siamo corresponsabili rispetto a quello che succede nel mondo: sul tema di questo articolo è interessante un breve corto che spiega in maniera semplice e diretta uno di questi casi (la dispersione delle microfibre) e fa parte di un progetto dal titolo “The Story of Stuff”, nato per raccontarci i retroscena legati a prodotti che quotidianamente compriamo o maneggiamo (pensiamo alla cosiddetta fast fashion, definizione che da sola ci parla già troppo di usura e disattenzione), senza essere sufficientemente consapevoli delle conseguenze.
RiverBlue, che ha visto una prima sold out al 25th Annual Environmental Film Festival di Washington, non è però solo una denuncia. E’ anche un grido di speranza, una domanda di cambiamento che fa leva su una convinzione: “through awareness we evolve”, che ci si evolva attraverso la consapevolezza, e che quindi sia fondamentale anche per noi consumatori prima di tutto acquistare solo ciò di cui abbiamo realmente bisogno e contemporaneamente impegnarci a pesare sulle scelte dei nostri fornitori di capi di abbigliamento, sapendo che se le dinamiche e le pratiche che regolano il mondo della moda non cambieranno rapidamente, sarà proprio quell’industria che ci fa indossare capi popolari (p. es., appunto, i jeans scoloriti che vanno per la maggiore) e ci fa sentire coccolati a renderci complici di uno tra i più gravi assassini pensabili, quello a danno dell’acqua che ci tiene in vita.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.