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In montagna a lezione di responsabilità
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Foto: Unsplash.com
Erano giorni di caldo inaspettato e fuori stagione. Poi, improvvisamente, un calo verticale delle temperature, l’allarme per le gelate e la sensazione che fosse tornato l’inverno. Condizioni climatiche anomale le cui ragioni sappiamo, ma ancora ci ostiniamo a ignorare. Provocano allerta non solo tra i contadini che fanno il possibile per proteggere le campagne, ma anche tra gli addetti ai soccorsi, sempre più impegnati a tutelare la sicurezza degli escursionisti sui pendii più o meno ripidi dell’arco alpino. E questa è solo una delle tante ragioni che ci portano a parlare di insicurezza in montagna.
Già, perché la pandemia ha indubbiamente invogliato molte più persone a frequentare la montagna. Ma spesso si tratta di avventurieri senza adeguata conoscenza e consapevolezza dei rischi annessi. Ci si inerpica su pendenze anche molto rilevanti in maniera imprudente, con la neve che si scioglie e il ghiaccio che nasconde insidie. Lo si fa con la sensazione di libertà e di evasione che i limiti imposti dalle restrizioni hanno indubbiamente esasperato, da un lato aumentando il desiderio di contatto con la natura nelle sue forme più estreme e selvagge, dall’altro portando in superficie aspetti più che mai attuali e dibattuti come l’ossessione per la sicurezza.
Dalla prima e più famosa tragedia in montagna del 1865 (caso Whymper sul Cervino) ai giorni nostri, la montagna è infatti uno dei luoghi principali di scontro e confronto sul tema della sicurezza. Le disposizioni dei vari DPCM che hanno per mesi, con ragioni a volte anche plausibili ma in ogni caso senza alcun nesso diretto con il contenimento della pandemia, vietato la frequentazione della montagna, hanno riacceso i riflettori su questioni che ci accompagnano dall’Ottocento ad oggi e che ruotano fondamentalmente intorno a una domanda: l’alpinismo e le terre alte sono un affare di tutti e ciascuno, o una questione elitaria per pochi? Una domanda che va di necessità aperta e approfondita, anche a fronte del fatto che quei “pochi” si connotano per un’accesa passione, una scrupolosa preparazione e uno spirito di rispetto e solidarietà nei confronti di chi condivide l’impresa. Uno spirito che per molti anni ha arginato controversie e denunce tra guide e clienti o verso i pubblici amministratori responsabili dei beni demaniali dove si verificava il danno, non essendo possibile applicare la norma di responsabilità da cose in custodia su quei territori dove, come sono i terreni d’avventura, non è possibile svolgere i doveri di vigilanza a carico del custode.
Le cose negli ultimi anni però sono cambiate: un turismo massificato, non sufficientemente consapevole dei pericoli e delle regole – talvolta anche non scritte ma altrettanto valide – che vigono in montagna sta imponendo nuovi approcci, per lo più improntati all’assenza di capacità di valutazione dei rischi e all’incapacità di assumersene la responsabilità. Nuove dinamiche e nuove pretese all’insegna di una maggior tutela, ma raramente di una maggiore (auto)informazione e formazione.
Richieste che sono arrivate nelle aule dei tribunali e che hanno coinvolto in processi sia civili che penali sempre più amministratori pubblici hanno imposto maggiori tutele per i danneggiati, non potendo (o non volendo?) applicare in maniera diffusa la teoria dell’autoresponsabilità (Fondazione Courmayeur Mont Blanc). Le conseguenze? Essenzialmente su due fronti: da un lato maggiori divieti; dall’altro lo snaturamento dello spirito stesso della montagna, in profondo contrasto con la deresponsabilizzazione del frequentatore e con la ricerca a tutti i costi di un colpevole e invece in perfetta sintonia con una società sempre più orientata all’individuo singolo e a un’organizzazione che, mentre protegge e garantisce massima prevedibilità, limita e proibisce.
Viviamo in un contesto culturale che ci induce a riflettere profondamente non solo in termini di sicurezze e garanzie, ma anche e in particolar modo in termini etici, sociali e politici soprattutto sull’incapacità – umana, troppo umana – di educare ed educarsi alla responsabilità personale e alla considerazione del rischio, nonché all’accettazione di quegli aspetti imponderabili, casuali e fortuiti e dei limiti connessi.
Purtroppo abbiamo intrapreso un percorso avviato sul piano inclinato della disgregazione sociale, che perde sempre più l’obiettivo di incentivare la responsabilità dell’individuo all’interno della piccola o grande comunità a cui appartiene. E che però, nonostante tutto, la natura – soprattutto in montagna – ci ricorda ogni giorno: l’incertezza è parte del gioco, aspetto imprescindibile e non eliminabile dell’essenza stessa dell’esplorazione e dell’escursione: capacità di valutazione, intuito, informazione, accettazione del fallimento. Tutti aspetti che non possono essere calcolati o previsti in modo oggettivo e assoluto, ma che dovrebbero essere al contempo lezione data e ricevuta da chi si avvicina alle terre alte in modo davvero autentico.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.