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Il conflitto infinito tra i sessi
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Foto: Unsplash.com
“Dramma femminicidi, la scia di sangue non si ferma: in 4 giorni due donne uccise e una terza in fin di vita” (La Repubblica 8/9/21). Dalla Sicilia, dove un uomo ha accoltellato a morte la moglie e poi ha tentato il suicidio, alla Sardegna, dove un quarantaduenne ha sparato alla compagna ferendola gravemente e si è impiccato, la violenza maschile contro donne, che fino a poco tempo prima forse avevano amato, non sembra conoscere tregua. Eppure è di questo misto perverso di amore e odio, che si allarga dall’ambito domestico alla grande scena pubblica – come nella tragica situazione delle donne afghane -, che è difficile parlare.
Il fatto che spesso l’aggressore rivolga l’arma contro se stesso non può non interrogarci su un rapporto tra i sessi che, nella sua durata millenaria, ha conservato i tratti di una guerra infinita, sia pure mai dichiarata. Il corpo che lo ha generato, da cui ha ricevuto cure, sostegno, piacere sessuale, in quel prolungamento dell’infanzia che è quasi sempre la vita amorosa adulta, non può essere visto alla stregua di un qualsiasi nemico. Nel passaggio dall’inermità e dalla dipendenza, che caratterizzano l’infanzia di ogni figlio rispetto alla madre, alla posizione di potere e di dominio di un padre, di un fratello, di un marito, e di una comunità storica di uomini, passano sentimenti contraddittori, ambigui, dove la protezione si trasforma facilmente in controllo, la tenerezza in rabbia e sfruttamento, l’appartenenza intima in appropriazione della vita dell’altro.
Della “virilità”, e soprattutto del “virilismo” come costruzione sociale dell’immaginario politico, che tanto peso ha avuto nella storia dell’umanità, poco si parla e ancora meno dei legami che ci sono sempre stati tra la barbarie che passa tuttora all’interno delle case e quella che affligge da sempre le strade del mondo. Fermare l’attenzione sulle donne, viste quasi esclusivamente nella posizione di vittime o eroine di una disperata resistenza, è il modo più rassicurante per allontanarle da esperienze comuni, per non doversi riconoscere in una “normalità” che assomma ai tratti di una “servitù volontaria” quelli di una apparente emancipazione dai ruoli tradizionali...