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Il Premio Sakharov va alle yazide simbolo della lotta all’ISIS
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Stupirsi della contraddittorietà degli esseri umani appare ormai un esercizio del tutto vano. Probabilmente risulta superfluo anche un tentativo di analisi di tale attitudine per cui non c’è da meravigliarsi di quanto leggerete nel seguente racconto.
C’era una volta in un territorio leggendario tra i fiumi Tigri ed Eufrate, culla della civiltà mediorientale, un paesino di nome Kocho. Nonostante si trovasse ai confini di un Regno dall’amministrazione piuttosto burrascosa, a Kocho si viveva in tranquillità, almeno finché non arrivarono dei briganti cattivi e armati fino ai denti che vollero occupare quel territorio e chiesero agli abitanti del paesino di piegarsi alla loro autorità e di adorare la propria divinità. Il diniego a quest’ordine trasformò gli uomini, le donne e i fanciulli di quella comunità in bersagli della furia omicida dei briganti cattivi: la maggior parte furono uccisi sul posto e i loro corpi accatastati in fosse comuni, la sorte dei più giovani fu ben diversa. Per loro iniziò un’esistenza di schiavitù e obbedienza forzata ai briganti cattivi, che usavano la brutale violenza per piegarli alla loro volontà. Solo pochi di essi riuscirono a fuggire rocambolescamente dalle grinfie dei cattivi, con l’animo e il corpo devastato da tanta brutalità, rifugiandosi in regni lontani dal piccolo paesino di Kocho, così che i briganti non avrebbero potuto più trovarli. Ma l’incubo vissuto e che si portavano dentro e la fortuna di essere dei superstiti li portava ogni giorno a implorare un aiuto per quei loro amici e familiari ancora schiavi dei cattivi. In particolare due giovani fuggitive, Nadia e Lamiya, furono chiamate a portare la loro testimonianza dinanzi ai governanti di altri regni che, pur conoscendo a grandi linee le vicende di quel paese lontano, rimanevano ogni volta stupiti dalla ferocia dei briganti cattivi e dall’eroicità di queste ragazze. Nonostante le loro storie combaciassero con quelle di migliaia di altre persone, cacciate e fuggite dal loro paesino con altrettanta disperazione, per gli abitanti dei regni restava però difficile capire e accogliere questi individui con tutto il loro passato di disperazione e il presente tanto incerto. Molti sospettavano talvolta che questi stranieri fossero addirittura inviati dei briganti cattivi, creavano scioccamente una gerarchia dei livelli di dolore che, a loro dire, avrebbero giustificato o meno tali fughe dal loro paese di origine, e temevano, ancor di più, di dover dividere con essi le proprie fortune e ricchezze, vedendole così diminuire anziché comprendendo che proprio da volti, animi ed esigenze diverse giungessero risorse per i loro stessi regni. Dimenticavano essi che dovevano proprio alla sorte il loro attuale benessere e che, tanto nel passato quanto nel presente, alcuni loro comportamenti avevano causato povertà e disperazione nei regni vicini. Nei nuovi regni di accoglienza, dunque, Nadia e Lamiya e pochi altri furono percepiti come eroi sopravvissuti al male assoluto, tutti gli altri furono relegati all’oblio e talvolta all’invettiva e al disprezzo.
Al di fuori di metafora, questa è la storia di Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, insignite a fine ottobre del Premio Sakharov per la libertà di pensiero assegnato dal Parlamento Europeo. Entrambe appartenenti alla minoranza yazida nel nord dell’Iraq, popolazione di origine e lingua curda che pratica un’antichissima religione, sono state rapite dal loro villaggio, Kocho, messo a ferro e fuoco dall’ISIS nell’agosto del 2014, e vendute a più riprese come schiave sessuali dei miliziani jihadisti. Torturate, picchiate e stuprate, sono riuscite poi a scappare in un campo profughi prima e in Europa poi; i segni di quel viaggio e di una mina antiuomo sono impressi atrocemente sul volto di Lamiya, che ha perso parzialmente la vista. A loro è andato il Premio, come ha sottolineato il presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz, poiché “Sono state testimoni di atrocità senza precedenti e hanno intrapreso un lungo cammino per ricevere la protezione dell’Europa: ora noi siamo obbligati a sostenerle per garantire che la loro testimonianza eviti l’impunità”.
Già il 16 settembre, in occasione della Giornata internazionale della Pace, Nadia Murad era stata nominata dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) “Ambasciatrice di Buona Volontà dell'Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta degli esseri umani”. Inoltre, lo scorso 10 ottobre, anche il Consiglio d’Europa aveva conferito alla 21enne rifugiata in Germania il premio Vaclav Havel per gli attivisti per i diritti umani, alla sua quarta edizione. Un riconoscimento per l’attivo impegno umanitario della giovane nel denunciare il massacro, forse il tentativo di genocidio, della minoranza yazida da parte di Daesh: l’uccisione di oltre 12mila yazidi, l’uso delle donne e delle bambine come schiave sessuali, e l’istruzione dei bambini rapiti come futuri terroristi sono crimini per i quali Nadia Murad continua senza sosta a chiedere una mobilitazione internazionale. Alla luce dei numerosi riconoscimenti da parte delle istituzioni internazionali, non manca di veridicità l’inserimento da parte del Times del suo nome fra le 100 persone più influenti del 2016.
Nadia Murad, la rifugiata, ha un posto privilegiato tra le migliaia di storie tragiche che molti altri richiedenti asilo potrebbero raccontare: la ragione attiene probabilmente al fatto che il contrasto alle milizie nere dell’ISIS risulta formalmente la causa comune che unisce l’Occidente e altri Paesi “amici”. La sua accoglienza “dovuta”, come ricordato da Martin Schulz, pone però un enorme interrogativo sul perché non lo siano altrettanto le esistenze tragiche di molti altri esseri umani.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.