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I Tribunali delle Donne per una giustizia di genere differente
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“La legge è uguale per tutti” campeggia altisonante nelle aule di giustizia italiane. Chissà se esiste un analogo cartello nei Tribunali nazionali o internazionali impegnati a rendere giustizia alle vittime di un conflitto armato. Un interrogativo legittimo quanto la riflessione che sia proprio l’appiattimento sull’uguaglianza di trattamento a rischiare di determinare disuguaglianze e ingiustizie.
Penso a una donna. Una donna che durante una guerra ha subito uno stupro, torture o altre violenze inenarrabili. Come può il suo racconto trovare spazio nei complessi lavori di ricostruzione e accertamento dei reati contestati agli imputati, se non nei tecnicismi della fattispecie di reato, nelle minuzie probanti indagate da procuratori e avvocati? La giustizia deve fare il suo corso, con le sue procedure e i suoi ristretti tempi. Probabilmente occorre allora un altro spazio, differente rispetto a quello offerto dalla più “inadeguata” giustizia ordinaria, per tentare di restituire effettiva giustizia alle vittime di stupri, intimidazioni, stigmate imposte dalla comunità e sanare quella rabbia mista a vergogna di ritrovare spesso l’artefice della violenza elevato a eroe della patria, con buona pace di quel corollario di abusi commessi durante e dopo la guerra.
Da questa riflessione nascono i cosiddetti Tribunali delle donne: aperti ai quattro angoli della terra, in Giappone e in Pakistan, in Egitto e in Sudafrica, l’obiettivo è quello di incidere maggiormente sul senso personale di giustizia, dal basso, per dare voce alle donne e al loro dolore. Il primo Tribunale delle Donne in Europa si è svolto lo scorso maggio a Sarajevo, città simbolo dell’efferata guerra combattuta nei Balcani nei primi anni Novanta, con delegazioni e testimonianze delle donne di tutti gli Stati nati a seguito della disgregazione della Jugoslavia. Un’occasione unica per ribadire la salda solidarietà delle donne, che le differenze etniche, religiose e linguistiche non possono annullare, e un messaggio politico contro le persistenti ideologie nazionaliste che ancora avvelenano i rapporti nelle diverse comunità. La procedura del Tribunale, allestito nello storico auditorium Bosanski Kulturni Centar, al centro di Sarajevo, è semplice: la voce di una donna che ha subito violenza emerge dalla penombra che avvolge il palco, a fianco a lei altre donne, per sostenerla nel suo racconto. La platea ascolta empaticamente. La platea applaude. La platea comprende e canta infine, ma non prima di aver meglio inteso il quadro politico, militare e sociale nel quale tali violenze possono essere ricomprese, ricostruito da accademici o esperti delle vicende accadute in quel territorio e in quei tempi. Una giuria di attivisti pronuncia infine sentenze e raccomandazioni, facendo riferimento agli elementi che sono ricorsi nelle testimonianze: la misoginia delle istituzioni, l’impunità dei responsabili delle violenze, la continuità e gli effetti delle violenze. La giustizia del Tribunale non ha valore legale ma ha un alto valore simbolico e riparativo per le vittime. È un processo per rendere le donne soggetti attivi della giustizia, e non semplici oggetti, basato sul bisogno di condividere la terribile esperienza vissuta, a parole proprie, senza i tempi limitati concessi dai processi, con il carico di emozioni interiorizzate e col forte supporto delle altre testimoni e del pubblico.
Il modello di Tribunale allestito a Sarajevo ha consentito un esame a tutto tondo delle violenze subite dalle donne. Le testimonianze raccolte dalle reti femministe negli ultimi anni hanno voluto denunciare non solo gli stupri o le uccisioni di massa commessi a partire dal 1991, durante la guerra, ma anche tutte le forme e i diversi livelli di violenza che sino ad oggi colpiscono le donne. I crimini non sono dunque solo quelli definiti dai codici penali ma anche le conseguenze di tali violenze: la povertà della transizione economica post-bellica, la solitudine a seguito dello sterminio della famiglia, i problemi di salute causati dai traumi subiti, l’emarginazione sociale e la negazione della cittadinanza. Il Tribunale è dunque diventato un megafono contro tutte le forme di ingiustizia contro le donne, un atto di accusa profondo rivolto alle istituzioni politiche, religiose e alle governance internazionali. Una ricerca di una giustizia più profonda per le donne, che collega la dimensione privata e familiare a quella politica e sociale che non si è fatta carico delle necessità di sicurezza, di benessere e di tutela di dignità delle donne, durante e dopo la guerra. Piuttosto i numeri degli stupri e delle pulizie etniche nelle guerre dei Balcani hanno costituito uno strumento in mano ai singoli Stati in funzione nazionalista, come atto di accusa, come trofeo per le eroiche vittime, ma senz’altro non per riabilitare e porre rimedio alla profonda ingiustizia che affonda nella discriminazione ancestrale della donna.
Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro donne che si celebra oggi è estremamente interessante guardare al laboratorio di giustizia balcanico, in genere relegato con un certo paternalismo o un occhio di superiorità al più arretrato “sud del mondo”. L’accrescimento nel tessuto sociale della consapevolezza delle responsabilità da cui si originano le violenze contro le donne appare difatti il più effettivo strumento di giustizia costantemente in funzione.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.