I Caschi Blu stanno a guardare

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L’operato della missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione della Repubblica Centrafricana, è stato messo in discussione nell’ultimo report di Human Rights Watch dedicato alla situazione nel paese africano. Gli analisti della ong newyorchese evidenziano che «sebbene sia autorizzata a usare la forza per proteggere i civili, la MINUSCA non riesce a prevenire e tantomeno a respingere gli attacchi nel campo profughi di Bria, per porre fine ai ripetuti eccidi di civili».

HRW denuncia le esecuzioni di decine di civili avvenute negli ultimi cinque mesi nel distretto di Haute-Kotto, cui appartiene la giurisdizione del campo profughi di Bria, e nelle aree circostanti. Autori delle efferate violenze sono i ribelli del Fronte Popolare per il Rinascimento del Centrafrica (FPRC), gruppo affiliato all’ex coalizione séleka, composta in prevalenza da musulmani.

I ricercatori, impegnati sull'ingarbugliato dossier centrafricano, non si limitano a segnalare le uccisioni compiute dall’FPRC, ma denunciano anche gli abusi perpetrati nello stesso periodo dalle milizie anti-balaka, letteralmente ‘anti-machete’, che hanno compiuto crimini simili se non peggiori degli antagonisti islamici. Quello descritto dall’organizzazione statunitense è solo l’ennesimo capitolo di un conflitto che dura dal dicembre 2012, quando gli ex ribelli séleka imbracciarono le armi contro le truppe dell’allora presidente François Bozizé e occuparono il nord del paese.

Nemmeno la presenza dei caschi blu dell’ONU è riuscita a migliorare la situazione, mentre le divisioni etniche, le rivalità, le dispute sul controllo delle risorse e le divergenze strategiche hanno provocato l’implosione della seleka, che alla fine del 2014 si è divisa in diverse fazioni, ciascuna delle quali ha assunto il controllo di una determinata porzione di territorio. 

Nel paese è divampata la violenza e dopo anni di continue violazioni di improbabili accordi di pace, nel giugno 2017 il governo di Bangui e 13 dei 14 gruppi armati hanno sottoscritto un’intesa che ha stabilito un cessate il fuoco immediato, una rappresentanza politica per le fazioni firmatarie, il rispetto dell’integrità del territorio nazionale, la creazione di una commissione di verità e riconciliazione, oltre alla possibilità di concedere provvedimenti di clemenza. Tuttavia, malgrado il fragilissimo accordo stilato sotto gli auspici della Comunità di Sant’Egidio e il ripristino delle istituzioni democratiche, 14 delle 16 provincie del paese, corrispondenti all’80% dell’intero Centrafrica, sono ancora sotto il controllo di vari gruppi armati.

Gli sfollati interni sono quasi 700 mila, i rifugiati nei paesi vicini sono oltre 550 mila e circa 2,4 milioni di centrafricani, vale a dire la metà della popolazione, dipendono per vivere dagli aiuti internazionali. Mentre l’ultimo indice globale della fame (Ghi 2018), presentato giovedì scorso dal Cesvi, denuncia che la Repubblica Centrafricana è il terzo paese dell’Africa subsahariana con il più alto tasso di mortalità infantile sotto i 5 anni (12,4%) e l’unico paese del mondo dove si registra un livello di denutrizione estremamente allarmante (53,7%).

Inoltre, il conflitto, che in origine contrapponeva milizie islamiche e cristiane divise anche dall’appartenenza etnica, adesso è alimentato dagli interessi economici, in ragione dei quali viene strumentalizzata la religione. E anche alla luce dei nuovi eccidi documentati da HRW, non sembra che i gruppi in lotta siano interessati alla pacificazione del paese, come si sperava nel giugno dell’anno scorso.

Marco Cochi da Nigrizia.it

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