Effetto farfalla. Un anno dopo la fuga da Kabul

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Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza. Tiziano Terzani

Quando il meteorologo Edward Lorenz – con la domanda “può il battito d’ali di una farfalla in Brasile generare un uragano in Texas?” – ipotizzò il principio che sarebbe diventato universalmente noto come “effetto farfalla”, forse non aveva del tutto chiaro che stava esprimendo un concetto che si applica a tutti i sistemi complessi, non solo – come ormai ci è drammaticamente chiaro – a quelli climatici. Ma anche, per esempio, al sistema delle relazioni internazionali tra gli Stati, nelle loro influenze reciproche, in particolare quando si pretende di esercitare – senza conseguenze e contraccolpi – politiche di potenza regionali o addirittura globali. Per questo, anche per comprendere pienamente alcune delle ragioni del ritorno della guerra aperta in Europa, con l’invasione russa del territorio ucraino, è necessario fare qualche passo indietro. Acquisire profondità e prospettiva, ossia complessità di visione, per sottrarsi al presentismo nel quale siamo immersi, nella bulimia del flusso informatico continuo dove notizia nuova scaccia notizia “vecchia”, in una sovrapposizione di istantanee semplificanti, nelle quali si perdono i nessi e le articolazioni. Cioè, precisamente, la capacità di comprendere pienamente ciò che accade qui ed ora.

20 anni di guerra in Afghanistan: per la rabbia e l’orgoglio o per lucida follia?

Quanto accaduto dal punto di vista mediatico a partire dal febbraio 2022, con l’improvvisa esplosione sui mezzi di comunicazione della guerra in Ucraina in riferimento all’aggressione russa, senza che negli otto anni precedenti fosse stato minimamente raccontato il conflitto armato in corso nella regione di confine tra Ucraina e Russa del Donbass, è sul piano comunicativo – mutatis mutandis – la riproposizione di quanto avvenuto solo alcuni mesi prima, nell’agosto del 2021, quando canali televisivi e piattaforme social sono stati inondati improvvisamente da drammatiche immagini e informazioni provenienti dall’Afghanistan, in riferimento alla ritirata statunitense ed occidentale dalla ventennale occupazione militare che non era stata raccontata negli anni precedenti, se non nei mesi iniziali. E, dunque, sostanzialmente rimossa dalla consapevolezza generale.

Per comprendere quanto accadde nei giorni della fuga da Kabul – e mettere a fuoco la cornice di quanto accade nei nostri – bisogna fare un flashback, un salto indietro di oltre venti anni, tra l’11 settembre e il 7 ottobre del 2001, quando si scatenò in Occidente la furia vendicatrice per l’attacco terroristico alle Twin Towers di New York che prevedeva per il presidente George Bush jr una guerra di occupazione contro uno Stato sovrano, in qualche modo riconducibile ai cosiddetti “nemici dell’Occidente”: la scelta cadde sull’Afghanistan, nonostante nessuno degli attentatori fosse cittadino afghano e il rifugio dove fu scovato e ucciso Osama Bin Laden, terrorista saudita che rivendicò quell’attentato, fu trovato dieci anni dopo nell’alleato Pakistan… Guerra alla quale – nonostante la contrarietà delle Nazioni Unite – i governi occidentali e la relativa stampa “libera” si accodarono, “senza se e senza ma”, guidati non dalla ragione e dalla saggezza ma da “la rabbia e l’orgoglio”, come il titolo di un famoso articolo sul Corriere della Sera – e poi del relativo libro – della giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, che ne sostenne e fomentò la crociata.

Furono ignorate, invece, tutte le voci ragionevoli e sagge contrarie alla guerra a cominciare da quella di Tiziano Terzani, il grande giornalista e scrittore che provò a rispondere così – profeticamente, direi – dalle stesse pagine del Corriere della Sera (che allora usava ospitare anche opinioni differenti), ad Oriana Fallaci ed a tutti i fondamentalisti della guerra: 

“Quel che sta accadendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.”1

Fu ignorata anche la voce di Gino Strada, il fondatore di Emergency, che rispondeva così il 7 ottobre del 2001 da Kabul a Gianni Mura che lo intervistava telefonicamente per il quotidiano la Repubblica, sotto le bombe occidentali: “Senta, è da quando siamo piccoli che ce la menano col si vis pacem para bellum dei latini. Non è vero, è vero l’esatto contrario. Se vuoi la pace prepara la pace. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra”. Concetto che avrebbe ribadito venti anni dopo nel suo ultimo intervento su La Stampa dove, qualche giorno prima della morte2 – e pochi giorni prima della fuga statunitense da Kabul – ha fatto un tragico bilancio della ventennale occupazione: 

“La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali. Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi. L’intervento della coalizione internazionale si tradusse, nei primi tre mesi del 2001, solo a Kabul e dintorni, in un numero vittime civili superiore agli attentati di New York. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001”3...

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