È la fine del reato di omosessualità in India

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Storica vittoria per il mondo LGBT nel secondo Paese più popoloso al mondo. Lo scorso 6 settembre la Corte Suprema indiana ha abolito la sezione 377 del Codice Penale che criminalizzava l’omosessualità, definita un rapporto contro “l’ordine naturale”, e ha posto così fine a una legislazione discriminatoria di era coloniale che prevedeva pene fino ai 10 anni di reclusione. Il verdetto è stato accolto a Delhi da una folla festante, e anche in lacrime, stretta attorno agli attivisti e ai sostenitori della causa LGBT che coraggiosamente da anni lottavano in maniera risoluta per ottenere questo risultato, specialmente dopo che un’analoga decisione dell’Alta Corte di Delhi del 2009 era stata cancellata dalla stessa Corte Suprema appena 5 anni prima sulla base di un ricorso presentato da gruppi indù, musulmani e cristiani.“Criminalizzare l'omosessualità è irrazionale e indifendibile”, ha osservato il Presidente del collegio giudicante illustrando il verdetto che cancellava e ponendo fine a qualsiasi dubbiosa interpretazione del nuovo atteggiamento in materia. 

Sebbene la normativa discriminatoria sia stata raramente applicata per intero, essa costituiva uno strumento per intimidire, ricattare e anche abusare. Nel 2014 sono stati depositati 1.148 segnalazioni; nel 2016 il numero era quasi raddoppiato a 2.187. Di fatto l’equivalenza “omosessualità uguale crimine” ha contribuito a perpetuare una cultura della paura e della repressione all’interno della comunità LGBT. Dunque, per quanto storica sia la sentenza della corte, considerata un contrappeso liberale alla politica conservatrice che investe l’India, la comunità LGBT sa che il panorama rimane insidioso. Così come sapeva che le oltre due dozzine di gay, lesbiche, bisessuali e transgender che hanno consegnato la petizione sarebbero potute andare incontro all’arresto semplicemente per essersi identificati come “non eterosessuali”. In ogni modo abolire una legge è una cosa, trasformare una mentalità profondamente radicata e ancorata alla famiglia “tradizionale” è tutt’altra. Cambiare la mentalità delle persone in modo che accettino ogni essere umano come tale è la nuova sfida degli attivisti indiani, al pari di molti altri in tutto il mondo. La speranza è che a mano a mano le restrizione ai diritti degli omosessuali cadano in un Paese dopo l’altro e probabilmente la sentenza nella popolosa India potrebbe incoraggiare ancora più nazioni ad agire, come ha auspicato Meenakshi Ganguly, direttore dell’area dell’Asia del Sud per Human Rights Watch

In realtà c’è anche da considerare che l’induismo, predominante in India, rende ancor più complicato che in altre tradizioni religiose l’approccio alla questione gay. L’induismo è infatti abbastanza permissivo dinanzi all’amore omosessuale: i templi indù più antichi raffigurano incontri erotici tra persone dello stesso sesso e addirittura in alcuni miti indù sono gli uomini a rimanere incinta o si descrivono le vite di transgender che ricevono uno status speciale e sono elogiati per essere leali. È stato con il dominio britannico, durante l’austero impero della regina Vittoria, che in India sono stati imposti costumi sociali drasticamente privi di tolleranza e naturalità verso l’omosessualità. La famigerata sezione 377 del Codice civile indiano fu introdotta allora e applicata solitamente nei casi di rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso ma ufficialmente estesa a chiunque avesse avuto rapporti orali o anali. La criminalizzazione di alcuni aspetti dell’intimità ha creato profondo imbarazzo in aula nel corso della presentazione del caso dinanzi alla Corte e dai propositori dell’abolizione della norma è stato posto un profondo accento sull’incompatibilità e anacronismo della norma rispetto ad altre adottate recentemente, prima fra tutte il diritto costituzionale alla privacy. 

I politici si sono tirati fuori dal dibattito. Il Primo Ministro Narendra Modi ha proprio annunciato che non avrebbe preso posizione sul pronunciamento della Corte, nonostante le posizioni conservatrici già espresse del suo partito su molte questioni sociali. Alcuni gruppi cristiani indiani sono stati i più strenui difensori del mantenimento della disposizione nel Codice, affermando che l’orientamento sessuale non è innato e soprattutto che la depenalizzazione dei rapporti gay avrebbe rinfocolato la diffusione della sieropositività nel Paese. Neutralità o avversione che non sembrano aver in alcun modo influito sull’atteggiamento della Corte Suprema Indiana.

Resta in ogni modo lungo l’elenco degli Stati in cui l’omosessualità è un reato, circa un terzo dei Paesi al mondo. In Africa sono 38 e ci muove verso leggi sempre più punitive: in Nigeria basta solo essere sostenitori di un’organizzazione gay per finire in prigione anche per 10 anni. Sono alcuni Paesi a tradizione islamica a prevedere le pene più alte: in Iran, Yemen, Mauritania, Pakistan e negli Emirati Arabi Uniti il reato è punibile con la morte e nel Sultanato del Brunei è stata introdotta recentemente la lapidazione per i gay, come in Afghanistan. Non mancano poi anche nei Paesi europei a più forte tradizione libertaria, quale l’Italia, dei rigurgiti di intolleranza e disprezzo verso l’omosessualità che emergono a singhiozzi, di cui l’aggressione di pochi giorni fa con la benzina a una coppia gay di Verona nella loro abitazione è solo una di un lungo elenco. Il problema sta tutto nell’assenza di educazione e di rispetto che nel nostro Paese fa ancora dell’omosessualità un insulto da gridare o di facile ironia, su cui spesso soffiano anche i partiti politici. 

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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