È in corso uno scontro di ignoranze?

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Parlare di accoglienza quando in tutto il mondo si ergono sempre più muri pare follia. Muri impenetrabili e reali, fatti di fili spinati elettrificati e fossi. Muri mentali di distacco altrettanto invalicabili tra un loro e un noi. Loro: i migranti, i rifugiati, i profughi. Noi: i minacciati, i sotto assedio, chiamati a condividere diritti, risorse, opportunità. Il celebre filosofo polacco Zygmunt Bauman ha descritto la storia dell’umanità come un processo di espansione della parola “noi”, dai ristretti gruppi di cacciatori e raccoglitori nella preistoria alle tribù, alle comunità, e poi agli imperi e agli Stati nazione, in un susseguirsi di balzi tra inclusione ed esclusione. Oggi in un mondo globalizzato è però pressoché impossibile individuare un nemico, un “loro”, come hanno sempre fatto i nostri avi: le relazioni di totale dipendenza gli uni dagli altri impongono la costituzione di una coscienza cosmopolita in cui il pronome “loro” deve progressivamente scomparire.

È stato Tahar Ben Jelloun a ricordare tale “road map” lo scorso 24 settembre al Festival delle Resistenze contemporanee di Trento. Lo scrittore marocchino, da oltre 40 anni osservatore attento in Francia dei fenomeni del razzismo e dell’immigrazione, da quel palco ha raccontato, quasi sconfortato, l’occasione perduta dalla Francia per integrare i migranti principalmente provenienti dalle sue ex colonie: per decenni la differenza tra il noi e il loro è stato registrato per quest’ultimi dalla residenza nelle degradate banlieue, dal mediocre sistema di istruzione offerto nelle periferie, dall’ambiente di diffusa delinquenza e dalle opportunità discriminatorie sul mercato del lavoro. Scarse, pressoché inesistenti, le possibilità di inclusione e di avanzamento nella scala sociale. Oggi che il terrorismo ha mietuto molte vittime nel Paese e che comprensibilmente la paura di “loro” si è diffusa, secondo Tahar Ben Jelloun non è più possibile parlare di una integrazione. Appare invece più realistico ideare politiche di de-radicalizzazione, in considerazione del fatto che occorre rivolgersi proprio a quella seconda generazione ai margini della società francese, a cui non è stata mai riconosciuta una piena identità nazionale né offerta l’opportunità di un’esistenza più agiata, che ha accolto la folle propaganda jihadista, barattando l’istinto naturale di ogni essere umano per la vita con una identità e una causa che conferisce successo e, perché no, senso di rivalsa.

La situazione sociale della Francia non rispecchia quella degli altri Paesi europei. Alcuni di questi, tra i quali anche l’Italia, è per fortuna ancora alle prese con una prima generazione di migranti e ha dunque in mano tutti gli strumenti per avviare una integrazione sociale migliore di quella costruita farraginosamente, o non realizzata, in altri territori del continente. È evidente però che in questa crisi cocente dell’Unione Europea, incapace di formulare soluzioni e in preda alla paura e all’ignoranza, la soluzione non può venire da singole azioni di politica nazionale. Ancora una volta ragionare in termini di “noi”, cittadini di uno Stato, e “loro”, restanti esseri umani del mondo, non funziona in termini reali in un pianeta dalle relazioni globali e in cui nessun Paese può dirsi una monade isolata. È da questa presa di coscienza sulla necessità di un’azione collegiale che lo scorso 19 settembre si è tenuto nella sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York il primo Summit su Rifugiati e Migranti, la più grande assemblea di questo genere dalla Convenzione sullo status dei rifugiati siglata a Ginevra nel 1951. Oltre a sancire l’ingresso ufficiale dell’Organizzazione Internazionale sulle Migrazioni (IOM) tra le Agenzie Specializzate dell’ONU, un segno della volontà di rafforzare il sistema di tutela per i migranti, il Vertice ha preso atto dei numeri del fenomeno, del peso sostenuto dai principali Paesi di accoglienza dei rifugiati (per l’85% nel sud del mondo), dell’incidenza di guerre, violenze, cambiamenti climatici sullo spostamento di milioni di individui. Dinanzi a tale disperazione e al concreto rischio di morte che inducono al movimento migliaia e migliaia di persone, è del tutto inutile opporre la chiusura ermetica dei confini nazionali: questo (in estrema sintesi) il messaggio finale del summit che ha voluto promuovere un miglioramento della cooperazione e del coordinamento tra gli Stati nell’affrontare la crisi migratoria ponendo al centro la tutela degli individui. Il supporto ai Paesi di primo asilo, la creazione di corridoi umanitari, il rafforzamento delle procedure di concessione dell’asilo sono solo alcune delle azioni suggerite dall’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) per non dare le spalle a quella parte di umanità, “loro”, che non riconosciamo come uguale a “noi”.

Il 3 ottobre l’Italia per la prima volta celebra la Giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione, sancita sulla scia della commozione per il naufragio avvenuto a largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013, nel quale morirono 366 migranti. Nel migliore degli auspici, l’esigenza di preservare il ricordo di quella sciagura dovrebbe andare anche nella direzione di un inaridimento di uno “scontro di ignoranze” in atto di cui parla un altro scrittore marocchino, Fouad Laroui, rilevando mestamente che (noi) “non capiamo nemmeno chi è l’altro, non cerchiamo nemmeno di capire chi è di fronte a noi”. Ancora una volta esiste un noi ed esiste un loro, ma non si capisce dove (e perché) inizia l’uno e finisce l’altro.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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