Donne

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Foto: Matthias Canapini ®

Occhi verdi e capelli rossi. 

Conosco Marjana, studentessa, a bordo del trenino diurno che da Skopye va a Belgrado.

È l’unica passeggera di un convoglio ferroviario che taglia le campagne serbe da sud a nord. 

Campi di grano spodestano l’orizzonte. 

Arriviamo nella capitale della repubblica serba verso l’ora del tramonto, alla vigilia del diciottesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, il più grande massacro in Europa dopo l’olocausto. Avveniva nel mese di luglio del 1995. 

Nella penombra del crepuscolo rasento lo scheletro di un palazzo mangiato dall’edera: uno degli elementi cittadini che rammenta invece i bombardamenti su Belgrado nel 1999. 

Il grande Danubio scorre placido poco distante, increspato dalle luci fioche della città. 

Fiume leggendario che riporta a galla memorie. 

Un giorno a Castelfidardo (campagne di Ancona), incontrai Dragana, donna e madre scappata dalla città bianca mentre le bombe vigliacche della NATO piombavano dal cielo. 

“I bombardamenti spesso iniziavano alle ore venti. Colpirono prima la centrale elettrica, in seguito quella idroelettrica, per continuare poi con le case dei civili inermi.

Vedevo i traccianti, le scie delle bombe senza sapere con esattezza dove sarebbero cadute” raccontò quel giorno. La paura, il rumore degli aerei, la fuga.

Dragana vide dal terrazzo di casa gli effetti di un ordigno sganciato proprio sopra un palazzo abitato; che prese fuoco come un fiammifero. 

Tuttora il rumore degli aerei la spaventa profondamente. 

Ed il colmo della faccenda, raccontò sempre quel fatidico giorno, è che la sirena della fabbrica dove Dragana lavorava saltuariamente, propagava un suono analogo a quello sentito e risentito durante i mesi dei bombardamenti.

Una sorta di secco, sonoro e prolungato “uuuuuu”. 

L’unico rammarico della donna è quello di non essere scappata prima dall’inferno in cui si trovava. 

A notte fonda incontro le Donne In Nero, movimento pacifico nato in una piazza di Gerusalemme ovest nel 1988, dall’incontro di sette donne israeliane che scelsero il nero ed il silenzio come modalità per protestare contro l'occupazione israeliana della Giordania e di Gaza. Da quella volta numerosi gruppi di donne e ragazze hanno dato vita ad assemblee e riunioni, fino a creare un'immensa rete solidale che corre dalla Palestina alla Spagna, come dalla Bosnia all'Afghanistan.

La sede dell’associazione è situata lungo via Yug Bogdanova, al primo piano di un edificio scrostato. 

L’ambiente è piacevole. Luci soffuse e quadri alle pareti.

“Le DIN di Belgrado incolpano la Serbia di essere l’artefice del massacro.

La strage fu guidata dal generale Ratko Mladic, con l'appoggio del gruppo paramilitare degli "Scorpioni”, in quella che al momento era stata dichiarata dall'ONU come zona protetta e che si trovava sotto la tutela di un contingente olandese dell'UNPROFOR. Detto ciò, le DIN organizzano anche campagne di sensibilizzazione relative alle violenze fisico-psicologiche compiute nell’Ex Jugoslavia in periodo di guerra. 

Nella Serbia di oggi, come in altri paesi europei, c’è sempre più una forte rivalutazione dei principi nazi-fascisti. 

Qualche anno fa ad esempio, durante la commemorazione annuale, gruppi organizzati di estrema destra hanno aggredito le DIN, insultandole e dichiarando che il genocidio, cosi come la parola stessa “Srebrenica” non è mai esistita, e mai esisterà. Ma le ossa di 10.000 persone massacrate non le puoi nascondere con l’indifferenza né tantomeno con l’idiozia di qualche fanatico” racconta Giannina, un’attivista di Verona. 

“Si contano 8372 musulmani maschi uccisi nel giro di pochissimi giorni. 

Il conto non è esatto. Ancora oggi si continua a scavare e migliaia di altre salme esumate dalle fosse comuni attendono di essere identificate.Grazie ad un esame medico tutte le famiglie private di un marito, un fratello, un nonno o un figlio potranno avere finalmente una bara su cui piangere. 

Quest’anno il numero di corpi (o parte di essi) ritrovati si aggira sui 409. 

Questo numero insieme ai resti ritrovati negli ultimi anni fa sì che le vittime del massacro salgano ad un numero superiore a diecimila” prosegue Staša, una donna gentile e carismatica. 

Lasciamo Belgrado alle 4.00 del mattino, la città si sveglia lentamente. 

Il pulmino da quaranta posti sfiora centinaia di pallidi girasoli.

La cara vecchia Bosnia, terra di Bosanski Kava e Cevapi, è dietro l’angolo. 

Una pattuglia della polizia municipale apre la pista coi fanali spianati, fino all’altezza di un bivio anonimo: Sarajevo a destra, Srebrenica a sinistra. Torniamo nel luogo della memoria.

Un luogo in cui, parafrasando le parole dell’attrice Roberta Biagiarelli, non potrà mai più esistere la pace

Perché prometterla ai bambini, la pace? A Srebrenica le scuole hanno ancora le chiazze di sangue nel muro e le vedove, andando a comprare ortaggi, spesso si imbattono negli assassini di un loro famigliare. 

Una volta dentro il memoriale di Potoćari le DIN vengono applaudite ed accompagnate alla loro postazione. 

Io perdo la bussola tra i parenti delle vittime. Non fotografo. Respiro l’aria. 

Le già numerate 409 bare si stagliano tra la folla. 

Appiccicato al muro esterno del complesso un foglio reca il nome della vittima esumata, affiancato dal numero corrispettivo della bara. I famigliari, a distanza di diciotto lunghi anni, si aggirano tra le verdi “scatole” semivuote. 

Gli occhi bassi ed un gruppo in gola. Telecamere piazzate ai quattro angoli del memoriale, e sul tetto in cemento, tra le lapidi bianche. 1995-2013

Una donna legge il corano in mezzo ad un mucchio di terra smossa e quattro vanghe sporche. 

Il silenzio è rotto saltuariamente dalla voce del muezzin che recita versetti sacri. 

Anziani pregano in cerchio nei pressi delle bare, coi palmi sudati delle mani rivolte verso Dio. 

Piove e nessuno si muove. 

Le donne coprono i feretri di legno grezzo con un fazzoletto o una sciarpa. 

Lacrime e acqua. Acqua e sudore.

Al termine della cerimonia, nella bolgia di umidità, polvere e corpi vaganti, le bare scivolano lente sopra le teste dei presenti. Una catena di mani le adagerà dentro buche di terra molle.

Primo e ultimo saluto. 

Folate di vento freddo investono l’aria.  

Tornerò in Italia a bordo di una moderna cinquecento, in compagnia di due vivaci anziani diretti a Mestre. Ripenserò al dolore e alla speranza, stringendo nelle mani un boccione di rakija alle prugne “made in Serbia”, ultimo regalo delle Donne in Nero. 

Diari estrapolati dal libro “Verso Est - appunti di viaggio” (Prospero Editore

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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