Darfur: urgente l'embargo sulle armi

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Embargo sulla vendita di armi e mantenimento della pressione politica sul governo di Khartoum. Per Stefano Squarcina - consigliere per l'Africa al Parlamento europeo, membro di una delegazione dell'Ue da poco rientrata dal Sudan - sono queste le priorità per spingere il governo sudanese ad una soluzione politica della crisi in Darfur. "La crisi umanitaria in Darfur ha origini strettamente politiche e l'unica soluzione è una soluzione politica". La sua analisi anticipa gli approfondimenti contenuti nel numero di ottobre di Nigrizia tra cui un'intervista a mons. Antonio Menegazzo, dal dicembre 1995 amministratore apostolico di El Obeid (Sudan), nella quale il prelato afferma che "genocidio è il termine giusto" per definire la situazione.

Prima di tutto quali zone siete riusciti a visitare e com'è la situazione?

Abbiamo cominciato da Khartoum, per fare il massimo di pressioni sul governo sudanese. In fondo gli scontri in atto nella regione del Darfur sono dovuti in massima parte a collaborazioni tra l'esercito sudanese e le milizie locali, i janjaweed. Poi siamo andati nel Darfur, atterrando ad El Fasher, principale città di uno dei tre stati della regione, e da lì ci siamo mossi per vedere quattro campi profughi, nei quali abbiamo trovato una situazione umanitaria veramente disastrosa. Per fortuna sono presenti alcune ong, intervenute per portare assistenza immediata alle popolazioni locali. Poi, con un volo militare speciale, ci siamo mossi in Ciad, nella regione di Abéché, dove ci sono altri 200.000 sudanesi. Anche lì c'è bisogno non solo di aiuto umanitario, ma di qualsiasi tipo di aiuto. Nella zona c'è una forte presenza di militari francesi che pattugliano la frontiera per impedire infiltrazioni di janjaweed dal Sudan verso le popolazioni rifugiate in Ciad.

Qual'è la vostra posizione nei confronti delle diverse parti in conflitto?

Prima di tutto occorre affermare che siamo di fronte ad una crisi umanitaria, cioè che bisogna portare aiuti a 1.200.000 persone, ma che questa crisi ha una ragione profondamente politica. In fondo è scoppiata quando i janjaweed e l'esercito regolare sudanese si sono messi in testa di reprimere il movimento avviato da due principali gruppi cosiddetti di guerriglia, Sla/m e Jem (Esercito/movimento di liberazione del Sudan e Movimento per la giustizia e l'uguaglianza, ndr), che chiedevano solo l'apertura di un tavolo di confronto per la ripartizione dei poteri e delle ricchezze.

È importante sottolineare che i due movimenti non avanzano nessuna rivendicazione separatista, ma hanno una piattaforma politica di richiesta d'apertura di negoziati con il governo del Sudan. È chiaro che la situazione è andata fuori controllo. Adesso il governo sudanese da una parte cerca di rispondere alla forte pressione internazionale, dall'altra fa "orecchie da mercante"; questo è un governo abilissimo nel prendere in giro la comunità internazionale. Ecco perché ci dev'essere il massimo della pressione sull'esecutivo.

Bisogna però anche riconoscere che alcuni passi sono stati fatti: il più importante è l'avvio di negoziati politici ad Abuja, in Nigeria, tra governo e rappresentanti dello Sla/m e del Jem. Ma non è abbastanza, perché in realtà il tavolo più importante, quello politico, è ancora bloccato. Questo soprattutto a causa dell'intransigenza del governo di Khartoum che non ne vuole sapere di condividere il proprio potere con le popolazioni locali.

Ci sono altri interessi del governo sul Darfur?

L'idea che mi sono fatto è che quella del Darfur sia una crisi politica in senso stretto. Nella regione non sembrano esistere, almeno per il momento, né grandi giacimenti petroliferi - perché questa è l'idea che viene fatta circolare -, né ricchezza di altro tipo. Credo quindi che ci troviamo di fronte ad un conflitto di ordine politico generale. Quella del Darfur è una popolazione marginalizzata dal governo centrale, estremamente povera e vittima del razzismo tra la popolazione araba e la cosiddetta popolazione africana che compone il Sudan. Certamente il governo è aiutato anche da paesi stranieri - penso all'Eritrea e ad altri, che hanno sostenuto la guerra sudanese dello Splm/A (Sudan people's liberation movement / Army, ndr) di John Garang nel Sud -. Ad un certo punto si è aperto un conflitto che, non dimentichiamo, non potrà avere nessuna soluzione militare, ma solo ed esclusivamente politica. È per questo che l'Unione europea, gli Stati Uniti, la comunità internazionale e tutti quanti, devono far pressione su entrambe le parti affinché arrivino ad una soluzione politica, che è l'unica in grado di dare una risposta strutturale alla crisi umanitaria in atto nel Darfur.

Le sanzioni economiche minacciate dall'Onu, dirette in particolare a colpire il settore petrolifero, potrebbero rivelarsi efficaci come forma di pressione?

Credo si debba innanzitutto cominciare a parlare di embargo delle Nazioni Unite sulla vendita di armi al Sudan. Non dimentichiamo che questo è un governo che spende più del 50% del proprio bilancio in armi. Hanno appena acquistato altri tre elicotteri che, peraltro, abbiamo visto direttamente in azione sulla pista di El Fasher. Sono elicotteri utilizzati per terrorizzare le popolazioni locali; il solo fatto di sorvolare i villaggi provoca, infatti, un fuggi-fuggi generale della gente. Prima di tutto è indispensabile, quindi, imporre un embargo sulle armi.Poi si tratta anche di minacciare le sanzioni: altre crisi hanno insegnato che spesso la minaccia di sanzioni è addirittura più efficace della loro applicazione. Certo, bisogna mantenere alta la pressione politica sul governo sudanese, perché, ripeto, questo è un governo che ha degli amici - sto pensando alla Cina e alla Russia, con i quali fa grandi affari, ma anche ad alcune imprese europee e statunitensi -, e, quindi, cerca di fare "orecchie da mercante". Di conseguenza il governo sudanese non va giudicato per quello che dice di voler fare, ma per quello che fa realmente sul campo.

A Khartoum la vostra delegazione ha incontrato i responsabili del governo sudanese. Qual è stato il loro atteggiamento?

Abbiamo incontrato il ministro degli Esteri Moustapha Osman Ismail, ma anche personalità più discusse, come il ministro degli Affari Umanitari, il quale ci ha spiegato che non c'è nessuna crisi umanitaria in Darfur, ma che anzi è tutta colpa dell'Europa perché sostiene la guerriglia.

Insomma, ci sono spazi all'interno del governo per far prevalere una politica piuttosto che un'altra, e questo è però anche responsabilità della comunità internazionale.

a cura di Michela Trevisan

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