Cotone GM? Adesso basta!

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Monsanto, a quanto pare un nome una garanzia… che ogni diritto si porta via. Non parliamo questa volta del glifosato negli erbicidi, né dell’incarnazione del male che questa multinazionale è diventata in anni recenti, né della campagna che ha radunato milioni di persone contro il marchio in questione. Questa volta, ad aprire gli occhi su alcune delle discutibili prassi dell’azienda è niente di meno che il Governo del Burkina Faso, che con la multinazionale ha deciso di chiudere i conti sul cotone. Casus belli: una serie di raccolti di infima qualità, derivanti da piante ogm con fibre corte e scadenti. E una richiesta di risarcimento da parte dei contadini ai “danni” del colosso americano di oltre 280 milioni di dollari.

Cerchiamo di venirne a capo e di capire cosa è successo e, per farlo, cominciamo da un documento pubblicato su African Affairs, uno dei journals della Oxford University Press. L’articolo apre su un’interessante questione: possono i raccolti geneticamente modificati aiutare i piccoli agricoltori dell’Africa subsahariana? Ad oggi solo due varietà di semi GM hanno raggiunto le fattorie africane, rispettivamente due tipologie di cotone e di granoturco resistenti agli insetti, il primo dei quali vanta il record di rappresentare la prima modificazione introdotta e coltivata in Africa, e in più di un Paese: prima il Sudafrica, poi il Burkina Faso. Il cotone GM è diventato una sorta di apripista da tenere sotto attento controllo per capire come potrebbero comportarsi - non solo a livello di performance biologiche, ma soprattutto a livello di risultati economici - altre varietà che potrebbero essere introdotte sul Continente. Un’operazione che mirava a verificare anche come i raccolti GM potessero portare benefici alle piccole fattorie familiari africane, ma che in Burkina Faso si è convertita in un processo di dismissione delle coltivazioni di cotone GM nell’arco dei prossimi 3 anni, adducendo come causa per l’abbandono della coltivazione l’infima qualità della fibra stessa.

La decisione del Paese potrebbe minare la fiducia pubblica negli organismi geneticamente modificati ben oltre i confini nazionali, in un momento in cui parecchi Stati africani stanno affrontando un dibattito dai toni accesi sui pro e i contro nell’adozione di nuove forme di tecnologie in ambito nutrizionale. Si prospetta infatti una fase di stallo, se non la definitiva interruzione, per le negoziazioni in corso affinché la fibra GM venga coltivata anche in altri Paesi francofoni del continente africano con preoccupazioni simili a quelle del Burkina Faso che, fino a poco tempo fa, era uno dei più convinti sostenitori di coltivazioni GM. Un cotone che viene infatti elogiato dall’industria delle biotecnologie come scelta ideale per favorire i contadini e i coltivatori dei Paesi in via di sviluppo, ma anche in Cina, Sud Africa e India. Lo stesso ministero dell’ambiente inglese sostiene che i raccolti GM siano fondamentali per affrontare il problema della fame nei Paesi più poveri, posizione avvallata anche da Stati Uniti, Nazioni Unite e Organizzazione Mondiale della Sanità.

Molte piccole fattorie africane però sarebbero certamente in disaccordo con queste affermazioni: a confermarlo ci pensa, nel caso del Burkina Faso, la Interprofessional Cotton, associazione che vede lavorare allo stesso tavolo coltivatori di cotone, stakeholder privati, governo e istituti di ricerca e include la Société burkinabè des fibres textiles (Sofitex), leader nel settore, la Faso Coton (di proprietà di IPS), e la Société cotonnière du Gourma (Socoma, sussidiaria della francese Geocoton). Non sono più quindi solo i produttori a lamentarsi del “cotone Monsanto”: sotto accusa, oltre ai rendimenti inferiori rispetto a quelli promessi a contratto, anche le fibre stesse, che non hanno soddisfatto le aspettative. Ragioni per le quali la Interprofessional Cotton sta valutando l’ordine di grandezza della compensazione che andrà a chiedere alla Monsanto, a fronte delle perdite subite a causa di coltivazioni GM dal 2008 ad oggi.

Un recente documento, curato da Brian Dowd-Uribe, Assistant Professor presso l’International Studies Department dell’Università di San Francisco e da Matthew A. Schnurr, Associate Professor presso il Dipartimento di Studi per lo Sviluppo Internazionale della Dalhousie University, ben descrive le ragioni per cui il cotone e altre coltivazioni GM non siano affatto ciò di cui l’Africa ha bisogno. Proprio prendendo spunto dal caso burkinabe, i professori sottolineano come il Paese fosse in passato conosciuto per l’ottima qualità delle proprie fibre non GM, frutto di un programma di investimento e supporto della durata di oltre 70 anni sostenuto dal governo francese. Anni d’oro, rapidamente cancellati dall’introduzione delle varietà modificate. Basti pensare che nell’ultima stagione della raccolta, il Burkina Faso ha prodotto più di 700 mila megatonnellate di corone, mentre il vicino Mali ne ha prodotte “soltanto” 500 mila. Ma il cotone maliano è stato completamente piazzato sul mercato internazionale, mentre quello burkinabe attende ancora acquirenti per l’esportazione. E in attesa rimangono anche i numerosi interrogativi che alla commercializzazione di fibre GM restano ancora legati.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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