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Così ci avviamo alle elezioni...
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“Tanto, peggio di così non può andare…”. “Vado a votare per sovvertire questo sistema che fa schifo”. Ecco queste affermazioni si potrebbero declinare in mille modi, ma il senso non cambierebbe. Così ci avviamo alle elezioni. Non contano dati, programmi, analisi sul contesto generale. L’importante è la percezione soggettiva della realtà. La sensazione diffusa di malessere. Non serve essere psicologi per notare che di solito siamo portati a lamentarci, a sottolineare gli aspetti negativi, ad incolpare l’altro per invidia o per un senso di rivalsa.
Qualcuno voterà i cosiddetti partiti “antisistema” solamente perché taglierà le prebende varie dei parlamentari. Con i soldi risparmiati si finanzieranno mirabolanti promesse di redistribuzione del reddito. Peccato che questo taglio delle spese della politica sia davvero un’inezia rispetto alle risorse impiegate per le pensioni oppure solamente per pagare gli interessi dell’enorme debito pubblico. Sono però inutili i ragionamenti: colpire la casta dei politici dà un senso di liberazione. Anche solo per un istante. Ci farà sentire bene. Basta privilegi. Certamente lo sfarzo e lo spreco nel trattamento economico di chi ci rappresenta stridono con la fatica quotidiana di molti cittadini. Eliminare vitalizi e agevolazioni dei politici non cambierebbe però di una virgola la situazione del Paese. Solo un gesto propagandistico. Che funziona molto bene.
Facciamo un esempio. Prendiamo l’amministratore di un grande condominio. Un giorno la maggioranza dei condomini decide di tagliare il lauto stipendio dell’amministratore. Con quei soldi risparmiati tuttavia si paga soltanto una fioriera nuova. Forse allieterà l’ingresso per un’effimera mattina, ma tutto il resto rimarrà come prima. Qualcuno s’illudeva che l’amministratore diventasse improvvisamente più onesto e più efficiente. Addirittura certi sprovveduti, naturalmente in buona fede, pensavano che così facendo migliorassero i rapporti tra i condomini. Una nuova stagione di prosperità si sarebbe aperta. Insomma, la rivoluzione.
Chi sta male – davvero male – è logico che speri in un cambiamento, qualunque esso sia. Ma invece è impressionante notare come persone di una certa età, con un lavoro solido e ben retribuito, con una media o alta cultura, con un benessere non scalfito dalla crisi economica, credano che sia arrivato il momento di rovesciare il tavolo, dando il voto a chi urla di più, a chi digrigna i denti, oppure a quanti sono privi di esperienza, proprio perché privi di esperienza. “Lasciamoli provare”. Azzeriamo tutto allora, dalle macerie salterà fuori qualcosa di migliore.
Da osservatore mi domando se l’Italia sia messa così male. Se la gente stia così male. Si dipinge un quadro devastato e devastante, ignorando completamente quello che succede altrove. Le cose potrebbero cambiare… in peggio. E non ci vorrebbe molto tempo perché ciò accadesse. Così istantaneamente rimpiangeremmo i “burocrati di Bruxelles” oppure una stagione di governo che non ha portato il Paese sull’orlo della catastrofe. Sicuramente bisogna puntare al miglioramento della situazione presente, con provvedimenti seri, con un clima generale diverso, non con gli slogan, con l’agitare di spauracchi (l’invasione islamica, l’insicurezza nelle città, i voraci banchieri…) utili per generare paura non per risolvere i problemi.
I mali endemici dell’Italia – corruzione, familismo, mancanza di senso di comunità, logiche corporative, mafie, incertezza del diritto – non si risolveranno con un voto di protesta. Che allora trova la sua motivazione in qualcosa di prepolitico. Il clima di oggi si condensa in una visione oserei dire “vendicativa”. La vendetta, si sa, non porta a nulla. L’offesa non viene risarcita, il bene perduto non si recupera. Però si è contenti di vedere soffrire l’altro. Così per un attimo si è felici. Il rancore trova uno sfogo. Momentaneo, alla lunga perfettamente inutile. “Viva la morìa, e moia la marmaglia!” gridavano esaltati i monatti quando trasportavano gli appestati nel lazzaretto di Milano, come si racconta ne “I promessi sposi”.
A livello collettivo si respira un clima da “odio sociale”, privo però di qualsiasi risvolto ideologico. Più che di “lotta di classe” siamo alla strenua (a volte maldestra) difesa del proprio orticello. La rabbia si riversa poi sul ceto politico, colpevole di tutto. Stiamo male e la colpa è del medico. Allora ci affidiamo al primo negromante che vende miracoli all’angolo della strada. Lui farà meglio del medico, giudicato preventivamente come un incapace o un corrotto.
C’è però qualcosa ancora di peggiore in questo insopprimibile desiderio di rivalsa. Cercare i presunti colpevoli, colpirli, rendere loro la vita difficile. E gioire per questo senza avere in cambio nessun vantaggio. Si chiama invidia: un male che distrugge l’individuo e la società. Prima di andare a votare proviamo a farci un esame di coscienza. Domandiamoci se anche noi siamo mossi da questo sentimento.
Articolo parzialmente pubblicato sul “Trentino”
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.