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Come opporci alla deriva tedesca dell’Unione Europea
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Ormai non si contano più le reazioni di ogni nazionalità, tipo e livello agli avvenimenti caratterizzanti di una crisi europea che sembra in ogni attimo aver raggiunto il proprio apice soltanto per dischiudere ai nostri occhi, nell’attimo immediatamente successivo, baratri sino a un momento prima inconcepibili.
Con qualche rara eccezione esse appaiono concordemente centrate su due punti, consequenziali fra loro. Il primo è stata la crescita eccessiva ed eccessivamente rapida della Germania. Eccessiva poiché ha definitivamente squilibrato una costruzione comunitaria che riconosceva per gli Stati membri la possibilità al massimo di “un ruolo trainante”, non di una “leadership”, oltretutto attribuendo sempre tale ruolo non a un singolo paese ma a gruppi di paesi – per esempio al “motore franco-tedesco”. Eccessivamente rapida in quanto gli avvenimenti hanno mantenuto un ritmo tale da impedirci di correggere tempestivamente con misure efficaci le storture indotte nella costruzione comunitaria dal pesantissimo divario che si è venuto a creare nella traiettoria fra la Germania e gli altri paesi.
Il secondo è stato il puntuale verificarsi della peggiore fra le ipotesi ventilate all’atto della riunificazione tedesca. Allora insieme a Kohl avevamo sperato in una Germania europea, senza però riuscire a soffocare del tutto la paura suscitata da autorevoli moniti – di Francois Mitterand e Lech Walesa, ad esempio – che delineavano per l’Europa quel futuro totalmente germanizzato che in effetti ora si sta prospettando.
In teoria, i pericoli insiti in una possibile globale presa di coscienza di quanto sta succedendo dovrebbero apparire immediatamente evidenti agli occhi di tutti. Purtroppo non è così. Si tarda a reagire o si rimane inefficaci – o peggio, inerti! – davanti a prese di posizione che avrebbero dovuto essere contrastate con immediatezza e se necessario con ferocia sin dalla loro prima enunciazione.
Si è permesso così agli opinion makers tedeschi di delineare il quadro di un’Europa formata da Stati di diverso comportamento e livello. Sul gradino più alto “le formiche”: in genere centro- e nord-europee, fattive, laboriose e risparmiatrici; sul gradino più basso “le cicale”: rigorosamente tutte del meridione comunitario, pigre , inconcludenti e parassitarie. Implicita l’idea – fortunatamente ancora inespressa ma sempre pericolosamente presente sullo sfondo – che se esistono Stati di prima e di seconda categoria è perché a monte ci sono esseri umani di prima ed esseri umani di seconda categoria.
Un concetto che ci riporta a un periodo recente, per cancellare i cui effetti residuali l’Unione Europea aveva combattuto nel corso della sua intera storia. Apparentemente con successo – ma non bisogna dimenticare che anche la Federazione Jugoslava si illudeva, sino all’esplosione del recente rosario di conflitti balcanici per l’indipendenza, di essere riuscita a rinchiudere nel vaso di Pandora i fantasmi degli odi della Seconda Guerra Mondiale.
Ora che la crisi greca è stata se non chiusa almeno apparentemente congelata – guarda caso con decisioni che vanno ben poco incontro alle reali necessità delle cicale greche, ma che compiono ogni possibile sforzo per tutelare gli interessi della virtuosa finanza internazionale coinvolta – il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble rincara la dose spingendo verso un’Europa ancora meno comunitaria di quella attuale, in cui alla Germania sia possibile esprimere appieno la propria forza. Non più un sistema equilibrato quindi, ma un unico polo di riferimento circondato da una corona di satelliti, magari scaglionati anche su orbite di livello nettamente diverso.
Non è certamente questa l’Europa per cui ci siamo tutti battuti con visione, amore e speranza per tanti decenni! Si tratta invece dell’Europa cui faceva riferimento Churchill all’inizio della sua Storia della Seconda Guerra Mondiale, allorché enunciava in poche righe il fatto che “il XXesimo secolo è stato caratterizzato da periodiche esplosioni della ricorrente vitalità teutonica” prima di dedicare alcuni volumi al racconto di come siano stati necessari sei terribili anni per riportare nell’alveo della ragione la più recente di tali esplosioni.
Siamo ancora in tempo per reagire in maniera efficace a questa deriva? Probabilmente sì, considerato come da parte della maggioranza degli Stati europei le reazioni per ora siano state più di sorpresa e sconcerto che d’altro. I nervi sono però così a fior di pelle che basterebbe probabilmente un singolo caso clamoroso per ricreare un clima di acuto pericolo. Di sicuro non andremo da nessuna parte sino a quando la massa di coloro che commentano continuerà ad assumere concordemente un atteggiamento rinunciatario nel momento in cui dovrebbe invece enunciare le possibili contromisure. Come i medici che, dopo avere identificato la malattia, scuotono la testa e si limitano ad attendere la morte del paziente senza provare a contrastare il decorso del male.
Si tratta di un atteggiamento che è particolarmente facile riscontrare in Italia, ove viene giustificato con le abituali scuse: l’irrilevanza del paese, l’insufficienza della classe politica, l’impreparazione dell’opinione pubblica ai temi di politica estera, l’impatto dominante dei problemi di carattere sociale ed economico e via di questo passo. Nel breve periodo un atteggiamento del genere consente di non scegliere, eliminando così il rischio di crearsi nemici. Alla lunga, si tratta di un atteggiamento suicida.
Oltretutto l’Italia ha o almeno potrebbe avere il modo e gli strumenti per opporsi alla deriva germanica dell’Unione Europea. Non riusciamo a bilanciare da soli il peso tedesco? Facciamolo assieme ad altri Stati, operando per unire a noi tutti coloro che non vedono di buon occhio ciò che sta succedendo. Cicale del sud per la maggior parte, ma non necessariamente solo quelle. L’ideale sarebbe che al gruppo si associasse anche la Francia; ciò potrebbe succedere se e quando si riuscirà a convincere Parigi del fatto che “il motore franco-tedesco” è ormai divenuto irreversibile archeologia comunitaria. Non disponiamo di strumenti di pressione che possano essere utilizzati come bargaining chips per piegate eventuali volontà contrarie? Ma se abbiamo non uno ma ben due strumenti di veto da poter esercitare su argomenti di vitale importanza, uno in ambito europeo e l’altro nel quadro dell’Alleanza Atlantica!
È vero, dovremmo assumere atteggiamenti inusuali per un’Italia che non dice mai no e il cui assenso è sempre preso per scontato, ma varrebbe almeno la pena di provarci. Se non altro per rassicurarci di non avere completamente dimenticato come si faccia. Non vogliamo l’Europa tedesca che si sta delineando e che non ci soddisfa? E allora rifiutiamola, ma con una opposizione intelligente. Vale a dire sapendo con precisione ciò che vogliamo e contrapponendo a ogni proposta una controproposta migliore. Ciò presume prima un dibattito nazionale per vederci chiaro, poi la scelta di una linea che pur mantenendo l’indispensabile flessibilità presenti insieme fascino, raziocinio e coerenza.
Non sono cose che si realizzino in un giorno… allora perché perdiamo ancora tempo? Cosa aspettiamo per cominciare?
Giuseppe Cucchi da Limesonline.com