Coltivando la libertà

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La coltivazione industriale della canapa ha il potere di ridurre l’impatto ambientale della produzione tessile, potenziare le fattorie di piccole dimensioni e creare posti di lavoro in più di un settore all’interno della catena di lavorazione.

Ne è convinta la National Hemp Association (NHA), associazione che da anni si batte per la legalizzazione delle coltivazioni di canapa negli Stati Uniti e che il 4 luglio scorso, guarda caso a coincidere proprio con la festa dell’Indipendenza, ha segnato in calendario la presentazione al Congresso di una petizione che ne auspica la legalizzazione a livello federale; in particolare si chiede, attraverso quello che viene chiamato Industrial Hemp Farming Act, l’introduzione della coltivazione sul suolo statunitense, nell’ottica di un sistema a rotazione facilmente adottabile dai contadini e volto a promuovere comunità e sviluppo economico su base locale, eliminando contemporaneamente la confusione tra canapa e marijuana che contribuisce a rendere il cammino verso la legalizzazione della fibra di cannabaceae un percorso ad ostacoli.

Per superarne qualcuno, riappropriandosi di una coltivazione preziosa per l’economia d’oltreoceano, si sono mosse due realtà non-profit del Kentucky. Da un lato la Growing Warriors, un progetto di reinserimento sociale e allo stesso tempo un programma agricolo che ha lo scopo di formare, assistere e fornire competenze, scorte e strumenti agricoli necessari ai veterani dell’esercito che si dedichino alla coltivazione e alla produzione di prodotti biologici per le proprie comunità di appartenenza. Il fondatore Mike Lewis e gli altri contadini di Growing Warriors sono stati tra i primi coltivatori di canapa sul suolo statunitense, non senza difficoltà. Difficoltà condivise, d’altro canto, anche da Rebecca Burgess, leader di Fibershed, progetto di sviluppo per sistemi di rigenerazione tessile basati su un’agricoltura che riduce l’effetto serra, volti a potenziare l’industria manifatturiera locale e strettamente connessi all’istruzione pubblica e alla costruzione di reti comunitarie.

L’agricoltura industriale, infatti, ha provocato nella società americana (e non solo in quella direi) una sorta di “amnesia culturale”: in altre parole, l’abisso che si è venuto a creare tra chi produce e chi consuma sta causando molti più danni di quanti siano quantificabili. E’ la posizione, francamente condivisibile, di Wendell Berry, autore, poeta e professore di scrittura creativa alle Università di Stanford, di New York e del Kentucky, nonché contadino e sostenitore di quella che si definisce “l’America rurale”. Uno di quelli che, come suggerisce l’ambientalista Gary Snyder, sposa in pieno il monito a “trovare il proprio posto nel mondo, lì scavare e da lì assumersi le proprie responsabilità”.

Ed è proprio da parole come queste che trae spunto e continuo incoraggiamento chi, sfoderando i propri talenti, si impegna in piccoli gesti di attivismo quotidiano, volti a proteggere sistemi di alimentazione e produzione sani e salutari: il passaggio dal “combattere contro” al “lavorare per” non è solo formale, è anche e soprattutto sostanziale. Obiettivo: ristabilire connessioni dense di significati tra le comunità e il mondo naturale, che spesso nascono e crescono proprio grazie al mondo agricolo.

Con questo spirito il regista Dan Malloy ha raccolto in un breve film, prodotto da Patagonia e con l’evocativo titolo Harvesting liberty, le idee visionarie di Mike e Rebecca. Partendo proprio dall’esperienza di Yvon Chouinard, fondatore del marchio californiano, che nel 1993 ebbe una delle sue lungimiranti intuizioni imprenditoriali, come sempre con un occhio di riguardo per la filiera sostenibile e rispettosa dell’ambiente. Allora protagonista fu proprio la canapa, utilizzata per la tessitura dei kimono giapponesi, apprezzata per la sua durata e resistenza, e individuata subito come preziosa componente per le future linee sportive, grazie appunto alla garanzia di longevità.

Se si pensa che in Cina sono stati ritrovati frammenti di canapa in tombe funerarie che datano prima del 1000 a.C., è facile comprendere le potenzialità di questa fibra in termini di sostenibilità del proprio ciclo di vita e produzione e, calcolando che ogni anno gli States importano prodotti in canapa già processati per un valore di circa 500 milioni di dollari, è facile immaginare anche l’importanza strategica, nonché economica e sociale, di un processo di legalizzazione che ha ancora una lunga strada da percorrere

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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