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Chi trova un amico trova un tesoro? No, lo affitta
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Mettiamola così. Non amo le frasi fatte, ma a volte sono costretta ad adoperarle perché sono esattamente ciò di cui c’è bisogno. Non amo i modi di dire, ma ce ne sono alcuni tremendamente efficaci per non essere richiamati alla memoria e alla bocca quando il momento è quello giusto. E non amo nemmeno i proverbi, ma è inevitabile rimanerne affascinati quando con poche e precise parole fanno sintesi della vita.
“Chi trova un amico trova un tesoro” non saprei in quale di queste categorie inserirla come frase, ma so che non ha mai scavalcato la cortina di fastidio che mi provoca. Forse perché mi evoca immagini di esploratori delle relazioni che come pirati con mappa alla mano cercano amici tra punti cardinali e indizi; forse perché la associo inconsciamente a una frenetica “caccia all’amico”, quasi che su un pallottoliere le persone diventassero punti. Forse perché un amico non è semplicemente un forziere pieno di luccicanti emozioni e monete, che depositi nel cavò del quotidiano aspettando che maturi interessi o che sia una riserva cui attingere nei momenti di “magra” (sociale, sentimentale, economica, come volete).
Un amico è anche e spesso una splendida, irrinunciabile, bellissima palla al piede, altro che tesoro! E’ una persona che, quando ha oltrepassato la soglia che divide la conoscenza dall’amicizia, manco te ne sei accorto o te ne ricordi tanto è stato naturale. Una di quelle persone di cui prendersi cura, da cui assorbire energie e a cui infonderne, una di quelle figure che nell’esistenza di ciascuno diventano fondamentali non solo per commentare la vita, ma per viverla. Una di quelle con cui ridi, accompagni la notte a dormire, ti innervosisci, ti lasci andare, da cui ti fai venire a prendere e a riportare. Un amico è una di quelle persone che stravolgono la matematica, perché fanno valere la proprietà transitiva nella maniera più irregolare e creativa che si possa immaginare.
Di certo un amico non è una persona che ti costa circa 9 euro l’ora. Eppure si fa anche così da qualche parte, si affittano amici a prezzo moderato, persone disposte ad ascoltarti e a trascorrere del tempo insieme a te. Non psicologi, psicoterapeuti o psichiatri, non collaboratori familiari, non religiosi. Persone qualunque, in genere maschi tra i 45 e i 55 anni (ossan in giapponese), che per un’ora ti offrono la pacata presenza e la compagnia di cui hai bisogno. In cambio di un modico compenso. Accade in Giappone, ed è la tendenza che ha caratterizzato i rapporti sociali degli ultimi tempi, generando tra l’altro un business significativo e in costante sviluppo.
Io, che in questo momento ammetto una rigidità e una severità che raramente mi appartengono, penso onestamente che sì, chi trova un amico trova un tesoro… ma da pagare! E’ questa l’interpretazione che dobbiamo dare alla frase di cui sopra?
Capisco che ritmi e modalità di convivenza indotte dalla nostra società ci spingano sempre più contro la corrente dei nostri cuori e del senso più profondo del vivere insieme, allontanandoci dalla natura che ci ha resi sociali, umani, relazionali. Comprendo la difficoltà a confidarsi e a trovare comprensione quando le asperità che in primo luogo ci portiamo dentro ci circondano di presunti o reali giudici inquisitori, il cui solo pensiero ci spaventa, figuriamoci la presenza dal vivo! Perché ci costringono in effetti a venire a patti con i nostri tratti distintivi, confini emotivi, limiti e virtù. Pensare però che l’amicizia da relazione diventi un “servizio” mi turba.
Eppure un servizio in questo caso lo è eccome, e i fornitori sono vere e proprie società che gestiscono le prenotazioni. Takanobu Nishimoto è uno dei precursori di questo trend: “La gente che mi affitta – dice – mi chiede solo di fare compagnia per una o due ore, perlopiù ascoltando”. Ha pure una faccia simpatica, ma c’è una parola tra le sue che stride come unghie sulla lavagna. L’affitto. Uno spazio (in questo caso umano, d’ascolto) preso in cambio di denaro. E non riesco a forzarmi alla tenerezza nemmeno se a comprarsi questo spazio è la signora ultraottantenne che vuole passeggiare nel parco.
Provo per lo più una svilente, frustrante vergogna verso la deriva sociale di cui mio malgrado sono testimone. Il discorso potrebbe certo estendersi ad altre prestazioni a pagamento ben più antiche, con sfumature inaspettate o inesplorate del nostro vivere in comunità: dai bisogni di cura a quelli sessuali, da quelli della conciliazione a quelli sanitari, sono evidentemente molteplici i casi in cui si paga per avere una relazione. Non è questo il luogo per approfondire questi aspetti, ma ammetto che al momento trovo - passatemi la parola un po’ dura - delirante quest’idea, anche se proviene da un contesto sociale molto diverso da quello in cui abito la mia quotidianità e in cui le regole per il “non dire” sono molto più numerose di quelle per il “dire”.
Ciò che probabilmente mi lascia in maggior misura perplessa è che non vedo ostacoli a che questa “moda” si diffonda rapidamente, ancora una volta a scapito dei meno danarosi, e ancora una volta come soluzione per aggirare gli scompensi relazionali che subiamo anziché affrontarli e, positivamente e possibilmente, riequilibrarli. Se è vero che la società giapponese (che ammetto, conosco peraltro molto poco) soffre da tempo di problemi legati all’estrema difficoltà a socializzare di alcuni individui, per lo più giovani, è anche vero che le nostre stesse società sempre più compresse e virtuali non sono distanti da esiti analoghi. Forse non si affronterà la questione in termini di “non dare fastidio al prossimo”, ma non esito a credere che la si possa tranquillamente leggere in virtù di una semplificazione che tralascia la complessità e la potenza dello stare con l’altro in maniera gratuita e autentica.
Il servizio nato in Giappone infatti apertamente ammette lo scopo che ne ha favorito lo sviluppo: “evadere dalle aspettative” che familiari e amici (in questo caso non prezzolati) accumulano nei nostri confronti. La domanda cardine che rimane aperta è questa: davvero può il denaro modificare i termini della relazione, rendendo possibile un confronto autentico che altrimenti non sarebbe possibile? Davvero siamo arrivati al punto che, piuttosto che guardare in faccia noi e le persone con cui condividiamo interessi, affetti, ricordi e prospettive, preferiamo pagarne altre - sconosciute - per un po’ di compagnia? Mi viene in mente il titolo di un romanzo letto recentemente, Quattro etti d’amore, grazie. Ve lo consiglio, perché a smentita del titolo, contiene svariati etti di quell’imperfetta poesia delle relazioni umane che più che prezzo hanno valore.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.