Biden/Putin: i risultati oltre un “incontro rituale”

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Foto: Unimondo.org

Due ore e un minuto di incontro, di faccia a faccia: forse, meglio dire testa a testa in questo caso. La videoconferenza fra Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d’America e Vladimir Putin, presidente della Russia, in qualche modo ci ha fatti tornare indietro di trent’anni, alla Guerra Fredda con l’Urss. E’ stato un ritorno al passato perché, come allora, il Mondo esce dall’incontro sapendo che, sostanzialmente, l’ipotesi militare, cioè uno scontro armato, è fortunatamente lontano, al di là delle dichiarazioni. Lo è, perché la videoconferenza ha rimesso al centro della politica internazionale due Paesi che hanno un disperato bisogno di riaccreditarsi come “potenze globali”: e guardarsi in cagnesco, minacciandosi, ha permesso di centrare l’obiettivo. E’ un salto indietro, perché ci ha fatto capire che dopo “l’onda Trump”, Washington si è resa conto di non poter fare a meno degli alleati europei, che nella preparazione e nel resoconto del colloquio sono stati coinvolti.

Lo potremmo, insomma, definire un “incontro rituale” di massimo livello, quello andato in scena – in remoto – martedì 7 dicembre 2021. I due Capi di Stato dovevano parlare soprattutto, ma non solo, delle tensioni crescenti sul dossier Ucraina, con la paura – la denuncia è della Nato – di un’invasione russa entro fine gennaio 2022. Alla frontiera, Mosca ha ammassato 170mila uomini e mezzi corazzati adeguati. Segno evidente – ha detto Biden a Putin – della volontà russa di forzare la mano. Putin ha risposto che no, quegli uomini sono lì per salvaguardare la Russia, messa in pericolo dalle manovre Nato e, soprattutto, dalla voglia europea e statunitense di far entrare Kiev nella Nato – come la Georgia – per poter piazzare sistemi d’arma offensivi alle porte di Mosca.

L’incontro ha portato a risultati? Sul piano delle apparenze, no. I due – dice chi ha assistito – si sono parlati con estrema franchezza. Biden ha ribadito che in caso di invasione, Washington e alleati useranno misure economiche drastiche e forniranno assistenza militare – armi e mezzi – a Kiev. Putin ha ribadito di voler trattare, ma su basi solide, con assicurazioni scritte che Ucraina e Georgia non entreranno nella Nato. Nessuno è riuscito a promettere davvero qualcosa, ma i due hanno lasciato la porta aperta. Hanno dato incarico alle diplomazie di restare sui dossier, per trovare soluzioni, che non riguardano solo l’Ucraina, ma sono il Vicino Oriente, i rapporti con l’Iran, il gasdotto Nord Stream 2. Sul piano reale, i risultati ci sono stati.

Ad esempio, si sono riaperti i canali di dialogo interrotti negli anni di Trump e questo è positivo. In questa situazione, immaginare un’azione militare diretta di Mosca in Donbass e contro l’Ucraina diventa quanto meno improbabile. Non tanto per le parole minacciose di Biden, quanto per la scarsa convenienza di Mosca. Le misure economiche che Europa e Usa potrebbero mettere in campo sono tali da far rischiare il collasso alla fragile economia russa e Putin questo lo sa. Sul piano militare, poi, l’Ucraina ha un esercito ben equipaggiato di 200mila uomini e almeno 30mila di questi sono truppe pronte a combattere ad oltranza: l’invasione sarebbe un bagno di sangue dai risultati incerti.

Putin, invece, il risultato lo ha ottenuto: è stato riconosciuto da Biden come capo di una “potenza antagonista” ed ha ridefinito i limiti territoriali oltre i quali la Nato non può arrischiarsi ad andare. Anche Biden è andato a segno. Ha costretto Putin a scoprire le carte e ha ridefinito il proprio ruolo in Europa, rinsaldando i rapporti con i quattro alleati che ritiene fondamentali: Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna. Un segnale forte, che potrebbe rivelarsi interessante anche nel ridefinire strategie e gerarchie nel Mediterraneo. Due ore e un minuto di conferenza, dicevamo, quella fra Biden e Putin il 7 dicembre. Forse non hanno regalato all’Ucraina la granitica certezza di non essere invasa. Probabilmente, però, senza sparare un colpo hanno contribuito a ridisegnare un pezzettino di Mondo dei prossimi anni.

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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