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Animali-uomo-animali-uomo: se il Covid fa il suo giro
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Foto: Cdn.pixabay.com
Per chi ha un animale o, pur non avendone di propri, li ama in quel modo che le bestiole domestiche riescono spontaneamente ad attivare, molto fisico e sbarrierato… coccolare e farsi coccolare dal proprio compagno di vita è normale: leccate, baci, zampate, condivisioni di divani, letti, cuscini, spazi. La vita si arricchisce di dimensioni, contatti, alleanze.
Pensare che queste relazioni possano diventare pericolose è... impensabile.
Lo scoppio della pandemia ha fin dall’inizio suscitato paure per quanto riguarda il rapporto tra animali e uomini, principalmente in questa direzione, quella cioè dello spillover (salto di specie) dai selvatici all’uomo. Evidenze scientifiche però non escludono che il passaggio del virus SARS-CoV-2 (l’ormai famigerato Coronavirus causa del COVID-19) possa avvenire anche in senso contrario. È quello che si chiama spillback, ovvero il “salto” del virus dall’uomo verso gli animali, dai criceti ai gorilla.
La cosa dovrebbe preoccuparci? Insomma. Se da un lato la gran parte degli animali che contraggono il Covid non hanno conseguenze così pesanti come accade negli umani e al momento non sono molti i casi documentati di spillback, d’altro canto una preoccupazione emerge prepotentemente tra i ricercatori: è possibile che il virus possa replicarsi, senza che ce ne accorgiamo, negli animali e lì subisca mutazioni? Se così fosse, sarebbe possibile che gli umani fossero reinfettati con nuove varianti e nuovi scompigli?
Quello che è successo negli ultimi mesi deve metterci in guardia: il virus non è più solo quello che abbiamo conosciuto all’inizio della pandemia, ma si è evoluto in diverse varianti anche grazie al manifestarsi di alcune condizioni: da un lato, l’elevato numero di contagi in tutto il mondo, che ha offerto al virus la possibilità di mutare ogni volta che si è riprodotto; dall’altro, il numero (pur minore) di infezioni croniche che si manifesta nelle persone il cui sistema immunitario non funziona come dovrebbe, casi in cui il virus ha più tempo di sviluppare strategie di “evasione” prima di essere debellato dalle difese dell’organismo (in questi casi molto più deboli rispetto alla norma).
I ricercatori si chiedono se questi fattori possano interessare anche il mondo animale: per capire se questo rappresenti un fattore di rischio, è indispensabile avere un’idea il più precisa possibile del numero di contagi nel mondo degli animali da compagnia, domestici e selvatici, un aspetto della ricerca che potrebbe apparire marginale e non prioritario ma che invece risulta di importanza fondamentale per delineare un quadro accurato del fenomeno e della sua diffusione. E a livello mondiale gli scienziati stanno lavorando anche in questa direzione, per cercare di capire quali specie siano più vulnerabili all’infezione e quanto comune sia il contagio nelle diverse popolazioni di animali: cani, gatti, furetti, cervi e topi fanno parte degli animali esposti in via sperimentale al virus o monitorati per contare gli anticorpi sviluppati in quei soggetti entrati precedentemente in contatto con il virus in maniera naturale.
Uno studio condotto in Inghilterra, anche se non ancora validato da altri ricercatori, calcola che su 377 cani e gatti testati tra novembre 2020 e febbraio 2021, solo 6 abbiano sviluppato anticorpi specifici per il SARS-CoV-2. Un risultato che, se confermato, dimostra che il virus non sta dilagando tra i nostri compagni a quattro zampe. Anche se un altro studio, questa volta olandese, ha rilevato risultati più preoccupanti (54 positivi su 308 animali in cui è stata effettuata la ricerca di anticorpi) ma probabilmente dipendenti dai diversi criteri utilizzati per la raccolta dei campioni: nel primo scelti casualmente, nel secondo scelti tra le famiglie dove almeno un membro umano avesse già contratto il Covid. Possiamo quindi al momento pensare che gli animali da compagnia non siano al momento vettori di infezioni o di sviluppo di nuove varianti. Ma le altre specie?
Sappiamo che i visoni sono sotto la lente in questo momento, e anche noi ne abbiamo parlato dopo le vicende accadute in Danimarca e Olanda – ma anche in Italia – nei mesi scorsi. Perché anche gli animali posso essere immunodepressi per molteplici ragioni, ma di certo non beneficiano di ospedalizzazioni prolungate o delle cure intensive che invece ricevono i pazienti umani, aspetto che rappresenta indubbiamente un considerevole svantaggio ai fini della sopravvivenza. Se attaccati dal virus, gli animali immunodepressi, soprattutto tra la fauna selvatica, non sopravviverebbero abbastanza a lungo per permettere al virus stesso di evolversi, anche se mutazioni minime sono state rilevate in studi ancora in fase di validazione e aprono la porta alla possibilità per il virus di mutare anche in tempi brevi.
Di dubbi ne restano, molti. Essenziale è la prosecuzione della ricerca a 360 gradi, in particolar modo su quegli animali che vivono a maggior contatto con l’uomo come gli animali domestici o da fattoria, più soggetti alla probabilità di essere esposti al virus per il contatto con umani contagiati: perché è una porta che per ora rimane fortunatamente socchiusa ma che potrebbe spalancarsi su scenari non auspicabili, che aumenterebbero peso e portata di una tragedia le cui conseguenze sono già sufficientemente difficili da affrontare.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.