Andare, oltre il disincanto

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Alle volte mi chiedo che cosa ci sono venuto a fare in America Latina, non dico spesso, ma alle volte mi capita che il cervello mi frulli di queste domande. Mi capita di mettermi alla prova, di farmi invadere da insinuazioni e malignitá per il puro piacere di sentirmi in colpa per qualcosa, qualcosa che avrei dovuto sfruttare meglio, e che teoricamente, sarei ancora in tempo a riprendermi. Cosa mi é saltato in testa di lasciare l’Italia, la mia famiglia, le mie amicizie storiche, la nostra cultura millenaria, i pilastri dello stato sociale, la dolce vita, la cucina migliore e piú variegata del mondo, in un colpo solo la maestositá delle Dolomiti e l’austeritá dei templi siciliani - che tra l’altro non ho mai potuto ammirare. Senza contare che al tempo avevo un lavoro sicuro, con un discreto stipendio e una carriera giá tracciata fatta di innumerevoli giacche e cravatte. In poche parole avevo tutto il mio pacchetto di certezze preconfezionato che niente e nessuno sarebbe stato in grado di strapparmi, neppure un attacco di isteria acuta o l’esodo dei sacri valori cristiani dal mio corpo. Ero cordialmente indirizzato al tipo di percorso a cui tanti ragazzi miei coetani aspirano e che purtroppo faticano a trovare.

E allora perché andare a impelagarsi in un paese del “Terzo Mondo”? Perché abbandonare le tante certezze comodamente apparecchiate e andarmi a cercare una nuova casa? Chi sta pensando che abbia mollato tutto per aprirmi un chiringuito su un’isoletta dei Caraibi, o che stia gestendo un ostello in Costa Rica o addirittura servendo piatti di spaghetti a Playa del Carmen, beh é un pó fuori strada. É ancora troppo presto per certi cliché. In realtá la gran parte dell’America latina é un continente ancora molto diverso dall’immaginario collettivo o dai villaggi vacanze a cui alcuni di noi sono abituati. E a me é sempre piaciuto vedere il lato oscuro, carnale, genuino dei luoghi che visitavo. Mi sento ancora troppo curioso e immaturo per marciare su certi stereotipi geografici.

Quindi un giorno, in un raptus di follia ragionata, ho “immaturato” la decisione di licenziarmi dal lavoro in banca e dedicarmi a qualcosa che mi desse piú stimoli, dal punto di vista personale e professionale. Ho sempre voluto essere una pedina per lo sviluppo di paesi meno fortunati del nostro, avete presente quella sensazione di sentirsi utili per qualcuno, e appena presentatasi l’occasione ho sciolto gli ormeggi e ho concesso al mare di trasportarmi con sé. E non mi sono piú pentito.

É inutile negarlo: quando sei all’estero, e ti rimetti tanto in gioco, succede che qualsiasi momento é buono per trarre un bilancio della tua esperienza. Cosa che invece non ricorre quando uno é sempre stato comodamente seduto su una scrivania, nel suo ufficio, nel paesino dove á nato, cresciuto e si é presentato ai piú, senza correre il rischio di spoilerare chissá quale retroscena. Perché non ha mai avuto nulla da mettere su quella benedetta bilancia. Io cerco di comprendere le vite altrui, segregare ció che mi piace in ognuna di esse e conservarle nella mia testa. E, nei limiti del razionale, condurre una vita felice. Le domande che alle volte mi pongo, servono piú a solleticare la mia fantasia, che a inculcarmi il germe dell’invidia o a proliferare risentimenti su quello che sono stati questi ultimi due anni, cioé da quando sono partito. Certo all’inizio non é facile sbattere contro un’altra cultura, con persone che hanno un passato e inevitabilmene un presente molto diversi dal tuo, sicuramente piú vulnerabili, ma a tutto ci si abitua.

Cosa tutt’altro che semplice é invece descrivere la matassa di ragioni che spingono un giovane italiano ad emigrare. Suggerisco peró, almeno, di sottoporsi a un minimo esame di coscienza, cara Italia. Forse non riusciró a spiegare esattamente cosa mi abbia fatto arrivare in Guatemala prima e in Ecuador poi, ma senz’altro posso individuare ció che mi abbia spinto ad allontanarmi, almeno per un pó, dalla nostra bella penisola: é stata la paura. Una paura avvilente e paralizzante. La sensazione di non essere padroni delle proprie aspirazioni e di aver delegato il proprio destino alla trama di un film giá visto, e inutilmente romanzato. La stessa paura scaturita dall’ignoranza di tanti discorsi vuoti, che in Italia, e non solo, vanno ormai di moda. E hanno il solo obiettivo di alimentare odio gratuito e innescare la miccia di una bomba che evidentemente vogliono farsi esplodere addosso. Non ho nessuna voglia di lasciarmi soggiogare da queste persone, abili a intavolare discorsi su flussi migratori, geopolitica, Crociate alla rovescia, con la scioltezza con cui parlerebbero di calcio, senza, per’altro, essersi mai separati dalle loro ridenti cittadine di provincia. Ho riflettuto e ho notato che gli uomini sono tanto piú piccoli, quanto piú credono di poter raffigurare il mondo isolandosi da esso. Una buona parte dell’Italia che mi circondava mi era diventata ostile, serrata, e, quel che é peggio, dannatamente brava a suggestionare il movimento neuronale dei suoi cittadini.

Cosí ho preferito io isolarmi da quella paura e iniziare a conoscere il mondo, evitando che qualcuno me lo descrivesse. Il mio non é stato un cambio unicamente dettato dalla ricerca di un lavoro. Che poi un posto l’ho anche trovato. E mi rende davvero molto orgoglioso e, probabilmente, meno impaurito di prima. Ora sono parte di un’organizzazione internazionale che si dedica alla microfinanza, e appoggia piccole ONG e cooperative di crédito promuovendone la trasparenza e il consolidamento istituzionale. Spero in un’altra occasione di poter illustrare meglio questo appassionante settore. Quito, la cittá che mi sta offrendo una residenza, é una capitale molto amichevole e il riflesso di una civiltá relativamente moderna. Se da un lato il progresso economico e tecnologico ha accelerato i rapporti e favorito una crescente classe media, é anche vero che dall’altro ha consegnato alcune lacune ancora da colmare, come per esempio l’approccio alla vita culturale, piú striminzito e superficiale del nostro, specialmente nelle generazioni piú giovani. Ma é comprensibile in un paese che fino a pochi anni fa viveva in un’arretratezza da dopoguerra.

Ció che realmente mi affligge, peró, é che guardando ai contenuti scarni del dibattito da prima pagina italiana evapora anche l’ultima goccia di nostalgia che mi é rimasta, e mi convinco che in fin dei conti sto bene dove sto. Presto mi accorgo che ció di cui ho bisogno ce l’ho a portata di mano: una boccata d’aria fresca, un pó di frutta tropicale a 3.000 metri e un bel tuffo indietro nel tempo, che chissá, potrebbe essere una cura a tanti mali odierni.

Marco Grisenti

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