Alla ricerca di un modo intelligente per usare le terre rare senza distruggere il pianeta

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Foto: Wikipedia, licenza di pubblico dominio

All’interno dei nostri telefonini c’è una vera e propria miniera d’oro. Anzi, di terre rare. Si tratta di elementi fondamentali nella nostra vita, presenti praticamente ovunque nei dispositivi elettronici che ci circondano: si trovano nelle tecnologie utilizzate per le comunicazioni, i trasporti, l’energia e persino la medicina. Sono poco conosciuti ai più, ma negli ultimi anni stanno diventando sempre più presenti nel dibattito pubblico e oggetto di contesa internazionale, arrivando a influenzare la politica e le azioni militari.

Secondo la definizione IUPAC, le terre rare (spesso abbreviati in REE, Rare Earth Elements) sono un gruppo di 17 elementi della tavola periodica compresi fra lo scandio, l’ittrio e la serie dei lantanoidi.

Tavola periodica degli elementi.

Il loro nome deriva principalmente dal modo in cui vennero isolati la prima volta: si trattava, infatti, di ossidi non comuni trovati all’interno di un particolare minerale, la galodinite. Da un punto di vista chimico presentano una spiccata capacità di fungere da conduttori e superconduttori, motivo per cui sono così importanti per le tecnologie e le comunicazioni. Le loro capacità magnetiche, inoltre, hanno fatto sì che venissero impiegati in molti campi come le nanotecnologie e la fotonica.

Impieghi delle terre rare. USGS, 2010.

Nonostante il nome, questi elementi, con la sola eccezione del promezio, si trovano con una certa frequenza all’interno della crosta terrestre: a seconda dell’elemento, infatti, si arriva fino a una concentrazione di 63 µg/g, più abbondante della concentrazione di altri elementi non considerati rari come il rame, il piombo o l’argento. Tuttavia, i REE formano raramente depositi di una certa grandezza, quindi con una qualche rilevanza da un punto di vista economico. Le terre rare si trovano infatti principalmente in tracce, più o meno abbondanti, in oltre 200 minerali (inclusi i silicati, gli ossidi o i carbonati) ma solo pochi di questi sono considerati economicamente accessibili, motivo per cui non è così facile avere accesso alla produzione delle Terre Rare da poter usare sul mercato. Il 96% delle riserve utilizzabili di REE si trova diviso in soli sei Paesi, con la sola Cina che detiene il 38% delle riserve utilizzabili, seguita dal Vietnam (19%), Brasile (18%), Russia (10%), India (6%) e Australia (5%).

  Produzione 2019 Produzione 2020 (stima) Riserve (stima)
Stati Uniti 28.000 38.000 1.500.000
Australia 20.000 17.000 4.100.000
Brasile 710 1.000 21.000.000
Birmania 25.000 30.000 ND
Burundi 200 500 ND
Canada 0 0 830.000
Cina 132.000 140.000 44.000.000
Groenlandia 0 0 1.500.000
India 2.900 3.000 6.900.000
Madagascar 4.000 8.000 ND
Russia 2.700 2.700 12.000.000
Sud Africa 0 0 ND
Tanzania 0 0 790.000
Tailandia 1.900 2.000 890.000
Vietnam 1.300 1.000 22.000.000
Altri paesi 66 100 310.000
Totale (arrotondato) 220.000 240.000 120.000.000

Tabella 1. Produzione mineraria e riserve di terre rare nel mondo in tonnellate. Rare Earths Statistics and Information, USGS 2021. 

Geopolitica della terre rare

La produzione, invece, è in mano a quattro paesi, con Cina (58%) e Stati Uniti (16%) che ne rappresentano la maggioranza produttiva su scala globale. Il divario crescente fra domanda di terre rare e minore disponibilità di approvvigionamento rende questi elementi critici da un punto di vista economico e di politiche internazionali. In particolare, nel 2010 una disputa fra Cina e Giappone sul possesso di alcune miniere sulle isole Diaoyu/Senkaky portò a una crisi globale riguardo la disponibilità di terre rare, con la Cina che arrivò a detenere un monopolio quasi assoluto del mercato e la preoccupazione che potesse emettere un embargo nei confronti delle risorse giapponesi. Questo episodio determinò una nuova consapevolezza da parte del mercato globale circa la disponibilità di una risorsa sempre più fondamentale per la tecnologia moderna e di conseguenza un innalzamento dei prezzi vertiginoso...

L'articolo di Chiara D'Errico segue su Scienzainrete.it

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