Lasciare il tempio per servire i poveri: Romero, 32 anni dopo

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Già da quel lontano, non troppo lontano, 24 marzo 1980, per la povera gente, oppressa e umiliata, che ha posto in Dio la sua fiducia, Oscar Arnulfo Romero è il santo Romero d’America. Mentre il portone di bronzo di Roma si chiude inesorabilmente al suo cuore, alla sua anima, alla sua persona di vescovo e di uomo, macinato dalla sofferenza del suo popolo, con le vesti intrise dal sangue della sua gente, a lui trucidato sull’altare, è riservato il trionfo di milioni di poveri, di uomini e di donne senza diritti e senza voce. Sono questi che a pieno diritto, perché preferiti da Dio, lo introducono a braccia alzate nella gloria dei santi.

Forse, meglio ancora senza questo “forse”, noi cristiani di vecchia data, immersi in un mondo, in una cultura capace di adattare perfino Dio ai nostri capricci; cristiani più legati ai nostri edifici religiosi in cui investiamo capitali enormi, che non membri attivi e gioiosi di quella comunità, Chiesa, voluta da Gesù, popolo di Dio che cammina nella storia, noi ci siamo dimenticati che la persecuzione ed il martirio sono i criteri più sicuri per confermare che la Chiesa è nel giusto. Ma Romero fa un’osservazione molto profonda quanto veritiera che ci scuote dentro. Lui dice: “Non è la Chiesa che è perseguitata ma il popolo. Poiché la Chiesa sta dalla parte del popolo e il popolo dalla parte della Chiesa, essa partecipa della preoccupazione del popolo”.

Stare dalla parte del popolo! Non è stato né semplice, né facile sia per Gesù Cristo prima, come per Romero poi. Se Gesù è nato fuori dalla sua terra, fra i poveri in un luogo non adeguato a un Dio e tutto il suo vivere è stato in mezzo alla sua gente, con la sua gente, dedicandosi particolarmente, per non dire esclusivamente, ai sofferenti, agli ultimi, Romero fu convertito dalla sofferenza e dalla passione vissuta dal suo popolo già da adulto, anzi già vescovo.

Non c’è alcun dubbio: fu eletto vescovo per essere uomo mite, di fiducia dell’autorità ecclesiastica e allineato con la politica e il potere dominante. Ma, nella sua nobiltà d’animo e nella ricerca costante di una fedeltà assoluta al Maestro Gesù, ben presto, pur con fatica e tante lacrime, si lascia prendere dalla sofferenza e dalla passione in cui vive il suo popolo e si converte.

Un vescovo che si converte ... Sembra assurdo! Quanto bisogno c’è oggi di questo tipo di conversioni! Così si concretizza anche in lui quello straordinario processo interiore e di vita provocato, per opera dello Spirito Santo, dai poveri. Sono ancora una volta i poveri che evangelizzano il loro vescovo. Sono essi che ora riempiono il suo animo di coraggio, di straordinaria fiducia nel Dio dei diseredati nonostante tutte le incomprensioni e contrarietà provocate da ogni tipo di autorità, ed anche da chi avrebbe dovuto, in nome della stessa fede e della stessa missione, essergli di appoggio e sostegno.

Le lacrime versate in mezzo al suo popolo perseguitato, nella notte tra il 12 e il 13 marzo 1977, inginocchiato davanti al cadavere del suo fedele e sincero amico Rutilio Grande e dei due campesinos, insieme trucidati, il vecchio Manuel Solòrzano di 70 anni e il giovane Nelson Rutilio Lemus di 15 anni, quelle lacrime lavano il suo spirito, la sua anima, liberando tutta la sua persona da una religione, da un clericalismo solitario, duro, disincarnato e fuori dalla storia.

Scrive Mons. Rivera Damas, che quella notte era con lui: “un martire diede vita ad un altro martire. Davanti al cadavere di Rutilio, mons. Romero, nel suo ventesimo giorno di arcivescovo, sentì la chiamata di Cristo a vincere la sua naturale timidezza umana e a riempirsi della intrepidezza dell’apostolo. Da quel momento mons. Romero abbandonò le terre pagane di Tiro e Sidone, e comminò liberamente verso Gerusalemme”. Verso quella Gerusalemme, la sua San Salvador, dove sapeva che avrebbe trovato l’umiliazione della croce, la persecuzione e la morte, non solo fisica...

D’ora in poi più nessuno potrà fermare nel suo intrepido viaggio questo uomo di Dio e vescovo dei poveri. Non lo fermerà neppure quella pallottola che gli ha squarciato il petto ed il cuore. Nessuno e nulla potrà arrestare quella luce evangelica, quella speranza che è dinamicità divina che Lui ha acceso e che ancora ardono come lampade per illuminare il cammino di tanti uomini e donne che non solo credono nel Vangelo ma che hanno anche fatto proprio il motto dell’arcivescovo Romero: “La gloria di Dio è che il povero viva”.

Mi piace tanto e mi commuovo profondamente vedere con la mente e con il cuore quello che è stato l’incontro del vescovo Romero con Marianella Garcia Villas, riportato dal Biografo di questa giovane martire, pure lei barbaramente trucidata come il suo amico vescovo, proprio in marzo, tre anni dopo. Nel corso di una manifestazione di campesinos Marianella viene arrestata, malmenata, derubata dalla polizia e poi ignominiosamente violentata. Nel giorno seguente va dal suo vescovo. È distrutta, frastornata, arrabbiata. Il suo cuore trabocca di odio e di vendetta. Vuole un’arma per eseguire il suo piano di rivincita. Romero tace, ascolta tutta la storia di questa giovane creatura e “al sentirla parlare di vendetta misura tutta la portata del trauma subito dalla ragazza e l’effetto devastante della violenza esercitata dagli oppressori del suo popolo. Allora l’arcivescovo si mette a piangere. A piangere come un nino”.

Il vescovo, anzi l’arcivescovo che piange. Ecco la grandezza di questo uomo, di questo profeta, di questo maestro e testimone del Vangelo. Alla fine abbraccerà questa ragazza consolandola, addolcendola, liberandola da ogni progetto di vendetta per animarla ad una ancora maggiore determinazione nella lotta pacifica in favore degli ultimi. Quella lotta di amore e per amore che la porterà ad essere pure lei martire come il suo amico Romero vescovo.

Tutti lo sappiamo chiaramente. Noi preti, vescovi, Chiesa gerarchica tutta, lo ripetiamo infinite volte. Lo diceva già S. Paolo: la scelta evangelica è stoltezza dal punto di vista del buon senso comune. Romero ha fatto presto la sua decisione: lasciare il buon senso per la stoltezza di Cristo. L’affermazione del Salmo 85 “Giustizia e pace si baceranno”, ha fortificato questo uomo, questo vescovo, nel suo pregare, nel suo intimo rapporto con Dio sapendo che la giustizia è un dono che scende dall’Alto, ma nello stesso tempo lo ha reso zelante nel suo dire e nel suo fare, conforme l’insegnamento biblico: “Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova ... odiate il male, amate il bene e ristabilite il diritto nei tribunali” (Is 1,17 e Am 5,15-24).

Non possiamo sottovalutare le parole del profeta. Non ci è lecito far finta di niente davanti alla Scrittura Sacra che dipinge Dio come difensore dei senza difesa, delle vittime dell’ingiustizia. Ricordiamo anche, se ce ne fosse bisogno, i salmi 68,66 e 146,7.9 “pure degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora ... Egli rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri, ama i giusti, protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova”. E il segno della venuta del Messia è chiaro e preciso: “Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l’oppressore”. (Sal 72,2.4.7 e Is 11,3).

Infinite volte, principalmente da parte delle autorità politiche, ma anche da parte degli ex amici, confratelli nell’episcopato e poi in lunghi dossier, inviati a Roma, il mite Romero è stato accusato di marxismo. Nulla di tutto questo nel suo cuore, nella sua mente, nella sua vita. Il fatto è che lui, come pastore, come padre dei poveri, era convinto che “violare la giustizia non è solo un atto socialmente perversa, ma è anche un sacrilegio perché colpisce il Difensore dei diritti dei deboli, il Signore” (Ravasi).

Romero sapeva bene che mettersi dalla parte degli ultimi significava essere segnato a dito da una parte come dall’altra; sapeva che i poteri lo avrebbero emarginato come lo avrebbero esaltato ed ogni porta si sarebbe spalancata davanti a lui se avesse fatto la loro scelta. Lasciare il tempio, lasciare ogni palazzo di potere per mettersi in costante rinnovato cammino sulle strade polverose al seguito di Gesù dove si incontrano i poveri, gli oppressi, i senza voce perché senza diritti, diventa per Romero come per quell’immensa folla di testimoni martiri di ogni lingua, razza, popolo e nazione, un segno e uno strumento di speranza per il mondo di oggi. Viviamo un tempo in cui la paura sembra dominare chiunque. Troppi uomini e donne fanno fatica a sollevare lo sguardo e a sognare e sperare. Romero e tutti i martiri di ieri e di oggi ci invitano ad avere più fede, a sognare e lottare per una umanità nuova, a costruire un futuro migliore. Noi siamo immensamente grati e tutti loro.

Girolamo Job

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